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NAZARENO TADDEI, UN GESUITA AVANTI - 1° la montagna


di ANDREA FAGIOLI

Padre Nazareno Taddei, gesuita, sembra una di quelle persone con l’orologio avanti. Arriva agli appuntamenti, ma ancora non c’è nessuno. Si stanca di aspettare e passa oltre. Quando arrivano gli altri, si guardano intorno, ma non lo vedono. «Io c’ero», dice Taddei. Ma gli altri, sempre piú d’uno, a volte decine, replicano: «No che non c’eri. Abbiamo guardato dappertutto. Eravamo in tanti». Cosí è successo che iniziasse le trasmissioni televisive religiose prima ancora della nascita ufficiale della tv. È stato mandato in esilio per aver detto che LA DOLCE VITA è un film che parla della Grazia e per questa sua idea si è messo contro i cardinali. Fino a che, trent’anni dopo, un cardinale ha celebrato i funerali di Fellini. Da un bel po’ di tempo predica in Internet: ha iniziato quando a «navigare» non c’era quasi nessuno. Adesso, a ottant’anni, guarda ancora avanti.

Questo libro-intervista racconta un po’ della sua storia.
 
 
LA MONTAGNA
  
   ANDREA FAGIOLI: Padre Taddei, perché ha accettato di fare questa intervista?
 
   NAZARENO TADDEI: Ho accettato perché penso possa essere una testimonianza di vita messa a servizio di Dio, in un’epoca in cui tutto è cambiato a causa dei nuovi mezzi tecnologici della comunicazione. Io mi sono trovato, primo sacerdote in Italia (penso), ad essere destinato «full time» a questa missione, come vero e proprio apostolato e non come amministrazione od organizzazione. La mia esperienza, peraltro modesta, spero possa servire ai giovani che desiderano farsi sacerdoti o religiosi, per convincersi che al Signore si deve rispondere con spirito di servizio e non di pulpito, se si vuole predicare il Vangelo. 
 
   Ha tenuto un diario della sua attività e dei suoi incontri?
 
   No. Se c’è un peccato di cui devo accusarmi, anche se non ne sono molto colpevole, è proprio questo. Mi spiace molto, perché mi sono trovato in circostanze che oggi a distanza di 40 o 50 anni, addirittura quasi 60, sarebbe interessante poter richiamare. Molte delle persone, tra l’altro, sono morte. Ed anche sulle date non potrò essere precisissimo. Ma tutto rientra in quell’atmosfera di testimonianza di cui dicevo.
 
   A proposito di date: lei è nato nel 1920. In che giorno, mese e dove?
 
   Il 5 giugno, alle 11 e mezzo di sera (cosí mi hanno detto), a Bardi in provincia di Parma.
 
   Quanto tempo ha vissuto a Bardi?
 
   Fino alla prima elementare compresa.
 
   Cosa facevano i suoi genitori?
 
   Mio padre era medico condotto del paese. Mia madre è morta quando avevo quattro anni, proprio in seguito al parto, nel senso che alla mia nascita prese una malattia che lentamente la portò alla morte.
 
   Come si chiamava suo padre?
 
   Clemente.
 
   E sua madre?
 
   Dora.
 
   Di sua madre presumo ricordi ben poco. Di suo padre, invece, che ricordi ha?
 
   In particolare ricordo un episodio. C’era il torrente Ceno in piena e mio padre tentava di traversarlo a cavallo. L’acqua lo stava per travolgere, ma lui aveva deciso di tentare ugualmente perché una partoriente, sull’altra sponda, lo stava aspettando. Mi ricordo che dalle onde di questo torrente impetuoso vedevo solo la testa del cavallo e quella di mio padre. Poi, finalmente, l’ho visto venir fuori dall’altra parte. Questo, tra gli episodi, lo ricordo ancora con molta impressione.
 
   Dunque, suo padre, deve aver lasciato un buon ricordo di sé in paese?
 
   Tant’è vero che 40 anni dopo la sua morte, a Bardi c’era ancora chi lo ricordava. Un giorno sono tornato lí per caso. Mi sono fermato al bar per prendere un caffè. E’ venuta una persona e mi ha chiesto: «Lei è il figlio del dottor Taddei?». «Sí, sono il figlio Nazareno». Si è sparsa la voce e sono venuti in parecchi per ricordarmi i benefici che mio papà aveva dato a quella popolazione. Uno diceva: «Se sono vivo lo devo a suo padre». Un altro: «La mia mamma, grazie a lui, ha potuto mettermi al mondo». Cose di questo genere. Mi ha fatto molto piacere.
 
   Ha idea del perché i suoi genitori l’abbiano battezzato con un nome cosí «impegnativo»: Nazareno?
 
   Credo che il nome sia stato voluto da mia mamma. Mio padre era positivista e quindi non era certo un uomo religioso, anche se il suo fondo di onestà lo portava a capire che la natura non si era fatta da sola. Era piú positivista nei confronti della Chiesa che non nei confronti di Dio. Non era comunque un anticlericale. Ha sempre avuto rispetto per la Chiesa. Quando mia sorella si è fatta suora lui ha rispettato la sua scelta. Capiva che si privava di una figlia, ma rispettava la libertà. Ha rispettato anche me quando sono entrato in seminario. S’è convertito quando mia sorella è morta.
 
   Com’è successo?
 
   Il giorno del funerale di mia sorella, ho accompagnato mio padre a Bardi. La sera, ricordo, si è ubriacato per il dolore. Andando a letto è caduto per terra. A stento sono riuscito a tirarlo su. Nel suo parlare confuso, poche parole, smozzicate, capivo che praticamente chiedeva perdono a Dio. Il giorno dopo mi ha detto che era necessario che lui si convertisse alla fede perché capiva che era la cosa piú importante. E’ stata la prima grazia che mia sorella ha ottenuto morendo.
 
   Oltre alla sorella poi diventata suora, ha avuto altri fratelli?
 
   Sí. Un fratello e un’altra sorella, Adriana, che è ancora viva, con due figli e tre nipotini. Dei quattro io sono l’ultimo. Il piú grande era mio fratello Mario, che poi è diventato uno dei dieci direttori generali della Banca Nazionale del Lavoro, capo del personale. E’ morto di tumore. Anche lui talmente ligio agli impegni del dovere che, quand’era direttore della sede di Bolzano, gli chiesi un piccolo prestito per una delle mie iniziative. «Piuttosto te li do io di tasca mia», mi rispose. Ma non li volli. Seconda era la sorella Maria Pia, che da suora prese il nome di Madre Nazarena, aveva cinque anni piú di me.
 
   Dunque, emiliano di nascita. Ma nel risvolto di alcuni suoi libri si legge che è trentino di formazione giovanile. Perché?
 
   Mio padre era trentino. Fra l’altro, mi è stato detto che fu condannato a morte ai tempi di Cesare Battisti. Riuscí a scappare attraverso il Tonale e a piedi raggiunse Parma dove si laureò in medicina. Ed è proprio durante la specializzazione in cardiologia che conobbe e s’innamorò di mia mamma, accettando cosí di fare il medico condotto.
 
   Dicevamo, però, del Trentino….
 
   Sí. Mio padre, un’estate, volle mandarmi in montagna dalle zie. Questo anche perché si era trovato senza moglie e con quattro figli da crescere. Ma con la sua attività di medico condotto non poteva attendere a tutti. Allora: una figlia, Maria Pia, la mise in collegio a Parma dalle Orsoline del Sacro Cuore, che ancora la ricordano; l’altro figlio in collegio a Piacenza; l’altra mia sorella l’aveva già mandata dalle zie. Un’estate, dunque, volle mandare anche me a fare le vacanze in Trentino. Approfittò dei nostri cugini, che avevano l’automobile (allora cosa rarissima) e che erano venuti a trovarlo a Bardi. Mi ricordo ancora il viaggio sul retro di una vecchia Fiat scoperta attraverso strade sterrate e mi ricordo soprattutto la polvere che mi sono mangiato nonostante mi avessero coperto con dei teli. Cosí arrivai dalle zie, che poi non se la sentirono di riaccompagnarmi in treno: non sapevano nemmeno come si faceva a prendere le coincidenze. Fatto sta che sono rimasto lí, a Malé, dalla seconda elementare. Ricordo ancora con molto affetto e devozione i miei insegnanti di seconda, terza, quarta e quinta. Il mio maestro di quinta elementare, Marcello Conta, l’ho rivisto anni fa. Ci siamo commossi ambedue a ricordare quei tempi. Per un periodo ci siamo anche scritti. Poi non ho saputo piú nulla. Tra i ricordi dell’epoca, ho ben presenti i primi tentativi dei fascisti di conquistare il Trentino, che era tutto antifascista. Ma ne ho altri anche precedenti.
 
   A che epoca risalgono?
 
   All’inizio del ventennio, avrò avuto sí e no tre anni.
 
   E che cosa ricorda?
 
   Ad esempio, ricordo che a Bardi, dalla finestra della signora Giacomina (la nonna dell’avvocato Valenziano, una personalità genovese), vidi gli squadristi fascisti dare l’olio di ricino al mio gelataio. Al momento non capii cosa stesse succedendo. La signora Giacomina mi tirò via dalla finestra e quella sera non mi portarono a prendere il gelato in quel «buchetto» dal quale veniva un profumo che non ho ancora dimenticato. Molto piú tardi seppi cos’era successo.
 
   Dall’olio di ricino di Bardi ai fascisti del Trentino: cos’hanno significato queste esperienze «politiche» infantili?
 
   Sono esperienze che mi hanno inciso: l’antifascismo e l’antihitlerismo mi hanno indirizzato ad un impegno costante verso la ricerca della verità e della giustizia. Io sono stato educato fin d’allora a guardare sotto questo profilo anche gli uomini politici. Mi ricordo, ad esempio, che la mia famiglia era in contatto con quella di De Gasperi, allora deputato al Parlamento austriaco. Piú tardi rimasi molto meravigliato quando venni a sapere che per il referendum monarchia-repubblica, De Gasperi, di sua iniziativa od obbligato, aveva giocato (per quanto ne ho saputo) sulle elezioni non tenendo conto, ad esempio, dei risultati che dovevano arrivare, ma non erano ancora arrivati, dalla Sardegna e dal Sud d’Italia, altrimenti la monarchia avrebbe vinto. Di questo, come dicevo, rimasi molto meravigliato.
 
   Prima di affrontare questi argomenti, vorrei ancora chiederle se ha qualche ricordo di quegli anni infantili passati in Trentino?
 
   Ce n’è uno che mi ha insegnato il rispetto per le donne. Non ricordo bene se ero in terza o quarta elementare, fatto sta che m’innamorai di una compagna di classe che veniva dalla montagna, dove c’erano quelli che noi chiamavamo «masi», una specie di fattorie con le vacche. Per arrivare dalla casa alla strada doveva attraversare il prato, che noi chiamavamo «grasso» perché pieno dei tipici escrementi di quelle bestie. Ricordo che questa ragazza veniva a scuola con gli scarponi tutti sporchi, ma a me sembravano fiori. Non le ho mai detto una parola, non l’ho mai avvicinata. So però che anche lei, perché me lo dicevano i miei compagni, aveva simpatia per me. Ci siamo rispettati, fino in fondo. Diventato grande ho saputo che si era sposata con un mio compagno di scuola. Senza dire niente, sono andato a trovarli, soprattutto per vedere com’era lei, anche perché ormai non c’era piú nessun elemento sentimentale. Questa donna aveva già avuto quattro o cinque figli, era tutta sfatta. Questa è un’esperienza che mi ha fatto capire che anche nell’aspetto sentimentale ci sono degli elementi, forse dei valori, che oggi sono completamente trascurati. Mi ricordo che c’è stato un periodo della mia vita in cui ho esercitato, con il controllo medico, l’ipnosi. Uno degli esperimenti l’ho fatto con due fidanzati (lui, tra l’altro, era un regista della televisione) che non erano sicuri di amarsi veramente e quindi di sposarsi. Io li ho ipnotizzati. A ciascuno di loro ho fatto vedere il partner pieno di piaghe, di malattie e di difetti. Nell’ipnosi chiedevo a ciascuno dei due: «Tu vuoi ancora bene a lei» e viceversa. Tutti e due risposero di sí. Quando li ho risvegliati, senza dire niente, si sono abbracciati: si erano accorti che il loro era amore. Questo per me è stato un esempio di validità di quei sentimenti che avevo ricevuto da un mondo dove la morale era severa, ma toccava le corde umane.
 
   In definitiva, cos’ha significato per lei la montagna?
 
   La montagna mi ha segnato per vari aspetti. Avevo degli amici con i quali ho cominciato a fare le scalate in ghiaccio e in roccia. Sono arrivato fino al quarto grado (quello dei miei tempi). Piú in là non sono voluto andare perché una delle cose che ho imparato dalla montagna è la prudenza. La montagna è piú forte di te, tu non devi credere di vincerla: devi rispettarla. Ho fatto anche il capocordata. Mi ricordo una volta sulla Tosa che uno della cordata non riusciva piú ad andare avanti, ho dovuto tenere la corda coi denti e con le mani tirarlo su. Anche per questo episodio la montagna mi ha dato un senso di grande responsabilità. L’altra cosa che ho imparato, è la conquista del difficile, dell’inaccessibile, per essere in grado (lo dico oggi, dopo tanti anni di vita e di esperienza) di sentire la voce di Dio, cioè il silenzio in cui Egli parla. Anche questo è un aspetto che mi ha inciso moltissimo: il silenzio non tanto fisico, ma interiore per sentire la voce di Dio. Queste sono due cose che mi sono rimaste culturalmente e spiritualmente dalla montagna. La gente di montagna, poi, mi ha insegnato soprattutto l’onestà. Lí erano tutti onesti. Era gente che credeva in Dio, magari non andava a messa, o se ci andava aspettava fuori della chiesa fino a dopo la predica. Cosí facevano soprattutto gli uomini. Non erano quindi molto attenti alla liturgia, però avevano un fondo di onestà: rispettavano gli altri e le cose degli altri. Basti pensare che prima della guerra, ancora sotto l’Austria, mi dicevano che c’erano tre gendarmi per tutte le Valli del Noce: uno a Mezzolombardo, uno a Cles e uno a Malé o a Mezzana. Dopo la guerra, passati all’Italia, si sono dovute moltiplicare le stazioni dei Carabinieri. Del resto, quand’ero giovane, ai rifugi sapevi dov’era la chiave per entrare, prendevi quello di cui avevi bisogno e lasciavi il corrispettivo in denaro. Dopo qualche anno, i proprietari hanno cominciato a non trovare piú niente: non dico i soldi o i rifornimenti, ma nemmeno le attrezzature. Quel vecchio clima mi ha inciso e mi ha impedito di accettare tanti condizionamenti.
 
(…)
 
Andrea Fagioli, Nazareno Taddei un gesuita avanti, ed. Edav, Roma, 2000
 


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