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IL PENSIERO FILOSOFICO DI PADRE TADDEI TRA ETICA E LINGUISTICA


di LUIGI ZAFFAGNINI
Edav N: 351 - 2007

L’articolo ampliato e completo di foto, schemi si trova in Edav n. 351 giugno 2007

 
Non di rado Padre Taddei, nel corso di una relazione o di un convegno, si lasciava andare a una affermazione che provocava sempre una certa meraviglia nell’ascoltatore. Per far comprendere che, alla base dei fenomeni culturali, anche di quelli più moderni, c’è sempre uno statuto che va indagato con strumenti cognitivi di provata solidità, egli affermava che, per lui gesuita, “il primo maestro di lettura del cinema era stato San Tommaso”. L’espressione, che di primo acchito poteva apparire una celia irriverente, era invece frutto di profonda convinzione e faceva preciso riferimento al valore chiarificatore che la sistematica filosofica mantiene anche per inquadrare aspetti apparentemente lontani da essa.   
Indubbiamente nella ratio studiorum della Compagnia di Gesù lo studio del tomismo ha sempre avuto, fino a non molti anni fa, una collocazione e una importanza di tutto riguardo e questo ha lasciato una traccia indelebile nella Metodologia della lettura strutturale, messa a punto da Padre Taddei durante tutto l’arco della sua vita.
A sondare attentamente e ad applicare la metodologia in modo non pedissequo, ci si accorge che, dall’insieme delle riflessioni taddeiane sparse in tutte le sue opere ed espresse nelle sue lezioni, emerge qualcosa di più e di diverso da un metodo che si attaglia benissimo al mondo della comunicazione sociale e in particolar modo audiovisiva.
Ci si accorge, cioè, che si è in presenza di un pensiero organico che porta a sintesi percorsi filosofici e scientifici diversi, pur senza avere né il nome né la intenzione di dichiararsi come filosofia teoretica.
Eppure di un denominatore filosofico, in senso ampio, non è possibile negare l’esistenza quando si guarda la complessità del significato delle elaborazioni concettuali taddeane. Esse superano il ristretto paradigma della filosofia come strumento egemonico del pensiero e aprono l’orizzonte alla sinergia della filosofia con la linguistica, l’antropologia, la semiologia, l’etica e la scienza del metodo, in funzione di un ausilio alla conoscenza e alla liberazione dell’uomo dalla schiavitù mentale. Nel più genuino afflato del Cristianesimo si avverte con Taddei quanto oggi, nella civiltà post-industriale, i poveri siano soprattutto coloro che sono de-privati dalla sub-cultura di massa della capacità di elaborare un pensiero libero e autonomo nel favorire una ecologia della mente e della personalità.
Per comprendere bene la natura e la collocazione di Taddei nel panorama filosofico della società post-industriale, occorre fare un raffronto non peregrino con l’attribuzione della qualifica di pensatore che, in tutt’altro contesto culturale, è stata riservata a Leopardi. Fatta la dovuta distinzione di personalità, di importanza e di risalto culturale che le due figure hanno avuto, si può parlare, a buon diritto, di filosofia per entrambi, anche se non esiste nessuna opera espressamente dedicata alla codificazione di una propria “ragion pura”.
Come il recanatese ha elaborato un sistema filosofico, che emerge non dalla organizzazione a priori di una weltanschauung, bensì da una distillazione teoretica dello Zibaldone, delle Operette morali e dei Canti, così la “poetica” di Padre Taddei, applicata al grande universo dei mondi linguistici della narrazione per immagini, scaturisce dalla capacità di “intus-legere” i pilastri di una concezione dell’esistenza, che viene ricercata attraverso quello specchio deformato della realtà, che sono il cinema e il mondo dell’immagine. Ma, per quanto deformati e deformanti siano questi specchi a causa delle scelte dell’autore che utilizza la tecnica, essi sono diventati imprescindibili per riuscire ad agganciare la realtà, quando non la si conosce per esperienza diretta.
In un certo senso cioè la impostazione del pensiero di Taddei sembra dipendere da un assunto esperienziale, assolutamente non contestabile, che è riconducibile a una formulazione di questa sorta: “Dato che l’esperienza individuale è obbligatoriamente limitata a quella estensione nel tempo e nello spazio, che la vita dell’individuo contempla, allora tutta la significazione che deriva dal complesso sistema dei segni-immagine, che rappresentano un mondo con cui noi non siamo a diretto contatto e che è frutto della organizzazione narrativa pensata da un uomo, non può essere liquidata come fatto puramente superficiale ed evasivo. Essa va, piuttosto, collocata saggiamente all’interno di un sistema espressivo, dove diventa determinante saper distinguere quello che riproduce gli aspetti della realtà dai modi della rappresentazione e quindi dal peso che finisce per assumere la idea, cioè l’espressione di chi ha realizzato quella rappresentazione”.
Detto questo e registrata la resistenza di Taddei a qualificare la sua metodologia come un pensiero espressamente filosofico, a causa di una sua certa qual ritrosia culturale e di una sensibilità per l’apostolato, che escludeva il trionfalismo accademico e la astrattezza per tutte le formulazioni, che non si traducono in stimolo alla applicazione alla vita quotidiana, non resta che esaminare i capisaldi di un pensiero, che meriterebbe di essere approfondito ben oltre i confini del discorso cinema e di queste nostre note.
 
Un pensiero non solamente neoscolastico.
Il primo e fondamentale aspetto che colpisce chi indaga sul pensiero taddeiano, non come semplice strumento interpretativo dell’universo massmediale, è il carattere sistematico che si articola in una gnoseologia, una metafisica e una pragmatica.
Un costante procedere attraverso rigorose argomentazioni, fortemente radicate nell’apertura al realismo ne costituisce il tratto distintivo. A questo tratto distintivo va aggiunta la costante vigilanza sulle implicazioni di carattere linguistico e semiologico.
In questo senso allora, più che tomista in senso stretto, Taddei potrebbe essere ascritto, non tanto al filone dei neo-scolastici di rigorosa osservanza, il che non costituirebbe, per altro, nessun demerito, bensì al più sparuto, ma coraggioso drappello di coloro che, arricchiscono il patrimonio medievale con applicazioni alla contemporaneità.
Essi ne vedono la imprescindibile funzione a fianco della fede cristiana per affrontare il disagio culturale, creato da quanti, con la loro dittatura del relativismo, hanno voluto sancire la frattura tra la cultura e il vangelo.
C’è, pertanto, nel pensiero taddeano la più cristallina prova dell’importanza che Benedetto XVI attribuisce alla ragione nell’andare di conserva con la fede, nel nome di una identità culturale, che più dichiaratamente cristiana non potrebbe.
Un altro aspetto che caratterizza questo pensiero in modo estremamente attuale è la capacità di farsi riferimento non statico, non immutabile, ma flessibile ed adeguabile alle realtà diverse di un mondo iper-tecnologico, in cui linguaggi e comportamenti sono in continua evoluzione.
Come il lavoro culturale era concepito, in epoca medievale, non come una costruzione da ricominciare ogni volta da zero, ma come una opera collettiva, una costruzione eretta col contributo di molti, nella quale sarebbe stato deleterio e stolto distruggere o ignorare le basi che altri avevano gettato, così il pensiero di Taddei, pur non rinunciando alla solidità delle costruzioni conoscitive di chi lo ha preceduto, innova e fissa al tempo stesso una apertura di credito per quanti desiderino progredire nel rispetto di quel fondamentale atteggiamento realistico che Taddei stesso ha applicato agli studi sulla comunicazione. Ecco allora che, se dovessimo attribuire un contrassegno distintivo al movimento di pensiero che Taddei ha saputo suscitare a partire dalle sue riflessioni maturate sul campo della lettura strutturale del film e dei massmedia, parleremmo volentieri di Realismo Comunicativo, anche se egli stesso non ha mai né coniato né usato questa espressione. 
Si scopre così in Taddei la statura dell’autore nel senso più completo del termine. Auctor è infatti, etimologicamente, colui che aumenta il patrimonio del sapere precedente, che aggiunge qualcosa in più e di nuovo e, nel panorama di studi critici sul cinema che danno pochi strumenti e tanta erudizione, la metodologia della lettura strutturale si pone come un fatto di indubbia originalità e di straordinaria chiarezza a livello di quello statuto filosofico che la sorregge e la rende esportabile come sistema di pensiero.
Come per Bacone, in pieno XVI secolo, il metodo è la sua stessa filosofia, così per Taddei la Metodologia è l’oggetto di tutti i suoi sforzi e il centro di tutte le sue ricerche, quando egli va a definirla e a perfezionarla. E per quanto la tradizione aristotelica e quella scolastica siano forti in questa opera di strutturazione del pensiero, non sfugge a Taddei l’esigenza di avere un legame stretto con la dimensione sperimentale e scientifica, cioè con lo studio obiettivo dei segni e dei fenomeni.
Il riferimento al modello insito nella osservazione della natura diviene quindi d’obbligo perché, senza di esso, la scienza è inutile e produce solo sistemi astratti e dispute vane. In poche parole la Metodologia di Taddei si configura come un inesauribile sforzo verso una intuizione generale del mondo e della vita (nel senso etimologico di intueor = guardo attentamente dentro).  
Come in ogni scienza che si rispetti, il risultato della conoscenza è debitore a un modo di procedere al tempo stesso in parte deduttivo e in parte induttivo, così, nel territorio delle riflessioni taddeiane, la costruzione della metodologia dipende dall’equilibrato dosaggio tra induzione e deduzione. La impostazione che oppone decisamente il mondo ontologico (la realtà) a quello semiologico (i segni) è figlia della deduzione, che fissa gli assiomi relativi alla diversità tra “la cosa” e “il segno della cosa”, cioè tra “la seggiola” e “l’immagine della seggiola”.
L’atto del conoscere, del risalire al significato, che deve impegnarsi a mai dimenticare tale distinzione, è invece fortemente induttivo. Esso deve investigare tutti gli indizi utili alla ricerca del significato contenuto in un messaggio per immagine. La lettura strutturale compiuta, infatti, porta al riconoscimento della marca ideale che l’uomo immette nei segni, frutto del suo operare comunicativamente.
Ogni lettura di film o di immagine non è già un esercizio di stile, come abbondantemente in uso presso la critica, bensì un vero e proprio momento sperimentale in laboratorio, dove ciò che conta, non è ciò che noi ci attendiamo dall’esperimento, ma ciò che il provare e riprovare riesce a dirci della natura di quel fenomeno che stiamo sottoponendo ad attento esame.
Realismo conoscitivo, pertanto, come primo momento e Realismo comunicativo come impegno successivo. Si viene in questo modo precisando la importanza della dimensione gnoseologica come primo fondamento del sistema taddeiano che, parafrasando appunto l’assunto baconiano, secondo il quale il “vere scire esse per causas scire” (conoscere veramente è conoscere le cause), attribuisce allo studio attento del “perché” un ruolo determinante.
La distinzione taddeana, infatti, dei livelli di ricerca nella triplice fase del Cosa, del Come e del Perché (essenza del fenomeno, modalità di aspetti, causalità di esistenza), fa comprendere chiaramente che, accanto alla inesaustività del conoscere umano, viene postulata la fiducia nella capacità dell’uomo di conoscere la realtà attraverso un percorso. In tale percorso, non basta che il “vero reale” ci sia e “si manifesti”, ma è anche necessario che diventi “vero per me”. Questo vuol dire che, data la realtà, essa non è automaticamente vera per tutti nello stesso modo, a prescindere da una pedagogia intrinseca nella realtà stessa (che pur va sempre aiutata ad arrivare alla ribalta del sapere) e da uno sforzo personale di appropriazione del vero.
La realtà non è, cioè, una pesante, inerte distesa di aspetti che schiacciano l’uomo, bensì una complessa, dinamica, mutevole espressione che interpella costantemente, i sensi e l’intelligenza dell’uomo che desideri comprenderla nella sua profondità materiale e spirituale. Ed è, allora, su questi aspetti che si costruirà, con tenacia realistica, la “ragion pratica”, cioè la componente morale della filosofia taddeana.
Proprio la compresenza di una “vis pedagogica”, già insita nel DNA del reale e di una “voluntas adprehendendi” da parte dell’uomo, dà la misura di quanto avanzata sia la teorizzazione taddeana sotto il profilo dell’importanza attribuita al linguaggio. E’ pertanto significativo il fatto che Taddei sia pervenuto alla fine degli anni sessanta a questa concezione, alla quale oggi uno studioso come Noam Chomsky offre una solida piattaforma su base linguistica con il concetto della “universale grande matematica del linguaggio” . E, ancor di più, è importante che gli odierni studi di neurobiologia sanciscano che addirittura il linguaggio dei concetti (cioè quello parlato e scritto) si impara obbedendo alle regole della biologia, cioè della natura identica per tutti gli uomini a tutte le latitudini e in tutte le epoche.[1]
 
Il problema della conoscenza e del rapporto tra quantità e qualità.
Non è qui possibile passare in rassegna tutti quegli aspetti del pensiero di Padre Taddei che giustificano una attribuzione di dimensione filosofica o di cercare tutte quelle ascendenze scientifiche e culturali che aiutano ad allargare il campo degli interessi da quelli della comunicazione massmediale a quelli più ampiamente radicati in una filosofia della esistenza, della natura e delle relazioni tra gli uomini.
Basterà tenere presente che, al di là della problematica gnoseologica, il tema dell’Essere e il tema dell’aspetto qualitativo, contrapposto a quello quantitativo connaturato imprescindibilmente con la umana esistenza, sono fondamentali per capire il costante, insistente orientamento a una “robusta” metafisica.
Essa non può permettersi di ignorare l’importante caposaldo del primo gradino che aiuta ad elevarsi oltre l’orizzonte del finito e che è dato proprio dalla “forma” (modo di presentarsi) di tutto ciò che è percepibile.
Taddei chiama, pertanto, Contorni quegli aspetti materiali e sensibili delle cose, che devono obbligatoriamente essere compresi nella loro struttura per permettere il passaggio a un qualsiasi atto di astrazione concettuale.
I Contorni in sé, però, non sono né un’idea né un’astrazione formale, ma una realtà fisica ben individuabile in quell’oggettivismo che è fondamentale nel costante gioco di deduzione e induzione, praticato quando si mette in atto la ricerca del significato del mondo che ci circonda e del significato della nostra esistenza.
I Contorni, pur essendo quantitativamente misurabili e finiti, ci permettono di attingere l’essenza o legge della qualità, che tende, in quanto immateriale, a divenire valore spirituale e dunque, in prospettiva, infinito. Sul potere dei Contorni di veicolare il senso delle cose, fino alla possibilità di cogliere gli “Universali”, si fonda poi tutta la concezione taddeana dello specifico del linguaggio dell’immagine.
La emblematizzazione (universalizzazione) di un aspetto derivato dai contorni di una immagine, come valido per tutta una classe di elementi che eccede la singolarità, dipende proprio dal modo di presentarsi di quell’aspetto. Ma nel linguaggio della immagine, a sua volta, quel modo dipende dalla volontà e dalla scelta di chi lo vuole ottenere come tale attraverso l’ausilio, o la complicità, della tecnologia.
Taddei distingue questo duplice ordine (rappresentazione delle cose ed espressione delle idee) come un livello composto di modi narrativi (aspetti relativi alla natura reale)e di modi semiologici (aspetti relativi alla modificazione apportata dall’autore attraverso la tecnologia). Dalla capacità di individuazione di entrambi i modi dipende il retto discernimento di ciò che, essendo solamente insito nel segno e dipendente dalla scelta dell’autore, non appartiene alla realtà.
E’ il grave problema dell’evitare le distorsioni introdotte dalle Comunicazioni inavvertite, che prende le mosse da un atteggiamento conoscitivo ad excludendum, che sotto il profilo strettamente filosofico implica, oltre alla ricerca del rapporto di causa – effetto, anche l’applicazione del principio di non contraddizione e del terzo escluso.
Rendersi conto delle Comunicazioni inavvertite vuole, cioè, dire che si deve evitare di attribuire un significato reale a quanto, nella dimensione del segno, appartiene al potere deformante della tecnica, subordinata o meno che sia alla volontà dell’autore, e che bisogna praticare una “ascetica” che aiuta a depurare la conoscenza da tutti gli influssi che incrostano l’essenza, il senso e il giusto valore del reale.  
Quel problema degli “Universali” che già Boezio aveva posto con determinazione nella sua opera e dal quale dipende il tipo di conoscenza umana, che identifica gli elementi intelligibili nel mondo sensibile, diviene nel discorso taddeano qualcosa di verificabile visivamente, di quasi tangibile nella applicazione alla lettura strutturale. E’ la strada che fa cogliere gli universali “in re”. Le idee, cioè esistono, ma solo nelle cose (Realismo, come più addietro s’è detto).
Ma Taddei fa capire ben oltre, cioè che le idee non esisterebbero certo senza le cose, ma, a maggior ragione, nel mondo della tecnologia delle immagini, non esisterebbero nemmeno senza le cose rappresentate dalle immagini. E questa non è assolutamente una concessione al “mito della caverna” di stampo platonico[2], bensì una nuova attribuzione di significato alla natura delle cose che vengono rappresentate. Il significato di esse infatti si coglie non solo in quanto dipendente dalla Res in sé, ma dalla Res, che mostra di essere tale, perché rappresentata nel Signum immagine. Il potere significante della realtà virtuale diviene pertanto importante quanto quello della realtà reale. Sta al buon lettore evitare gli inganni con discernimento e cautela scientifica.     
Diviene pertanto inammissibile la posizione “ultrarealista” (che va, cioè, al di là del reale), che giunge a sostenere che, se anche non ci fossero le cose, ci sarebbero le idee (gli universali, cioè, sarebbero “ante rem” , nel mondo delle idee platoniche).
Del pari, il nominalismo “post rem” (quello che fa concludere a Eco: “Stat rosa pristina nomine; nomina nuda tenemus”) mostra tutta la sua fragilità nel non riuscire a cogliere la struttura intelligibile oggettiva e nel non accorgersi che la realtà non dipende dal fatto che l’uomo la nomini o le dia una designazione convenzionale. E’ questa una tipica confusione tra la realtà e il discorso sulla realtà. Un equivoco in cui è facile cadere, quando non si riesce a distinguere che due sono i livelli diversi del problema: quello del Signum e quello della Res, cioè quello dell’apparenza e quello della sostanza.
Per quanto dunque si possa parlare di difficoltà e di fatica nel cercare di avvicinarci all’essenza delle cose oltre la sensitività, con la intellezione, si deve però ammettere lo sforzo e la inesaustività del conoscere umano. Sforzo e inesaustività che includono la perfettibilità della conoscenza in forza di una progressione nell’impossessarsi di una successione dei livelli della cosiddetta quiddità (il livello di conoscibilità cui le nostre capacità e competenze permettono di avvicinarci), che portano a un autentico progresso di qualità e non solo di quantità nella appropriazione piena dell’essere.
La conoscenza infatti, per Taddei, è uno scandaglio, o una ascesi, che procede per gradi, senza l’illuminazione folgorante, ma attraverso il sudore e il dolore della applicazione e dell’esercizio responsabile della volontà.
Non si arriva a cogliere il tutto, o il quasi tutto, se prima non si è passati per l’arduo sentiero del piegare la propria natura, la propria mente al sacrificio della costrizione, alla investigazione sul reale, del seguire gli indizi che nelle cose ci spingono ad andare oltre la superficie del loro apparire. E quando la ricerca si basa, non sulla natura reale, ma sull’immagine, il sacrificio e l’impegno raddoppiano, se non addirittura diventano un vero e proprio prendere la croce di intellettuali consapevoli, per affermare l’onestà del pensiero e la verità della ricerca, nel nome della testimonianza.    
Sotto questo profilo, e solo sotto questo, la metafora della luce come l’essere di cui partecipano gli enti, così come la dipinge Heidegger, non dispiacerebbe a uno studioso del linguaggio dei Contorni come Taddei, ma, oltre alla bella metafora egli non andrebbe mai, perchè Heidegger sostiene, non la luminosità di un essere ontologicamente determinato, bensì la indeterminazione di una falsa luce nella quale le cose appaiono e spariscono. E questa umbratile condizione non è decisamente compatibile con la funzione di roccioso ancoraggio metafisico che la “metodologia-filosofia” assolve nel servire da stabile riferimento per l’uomo.[3] 
 
Il rapporto tra metafisica e linguaggio.
Si può dunque definire quella di Taddei una semplice concezione metafisica dell'essere? Sì, ma non perché essa sia una facile scappatoia nella definizione dell'essere, bensì perché è necessaria e obbligatoria sotto il profilo della conoscenza come fatto che attinge la sicurezza e la certezza dei principi fondanti. Ma se di concezione metafisica si tratta, Taddei non dimentica tuttavia né il mondo reale né il mondo del linguaggio.
Il mondo reale, cioè contingente, nel panorama della metodologia di Taddei non serve tanto per dimostrare Dio come volevano in generale le vie di San Tommaso, bensì serve, in ambito comunicativo, a dare solidità all'approccio all'essere e alla conoscenza di esso negli enti, marcando la differenza che c'è tra esperienza sensibile e intellezione da un lato e illuminazione di tipo heideggeriano dall'altro.
Lo statuto del pensiero di Taddei è assai lontano dall’idealistico “tutto ciò che è reale è razionale”, cioè lontano dall’assunto: “la realtà c’è perché io la penso”, che diviene poi in Gentile “la realtà c’è solo quando io la penso”.
Secondo Taddei “l'io non fonda l'essere”  (l’uomo non dispone della possibilità di attribuire quale senso abbia il mondo), bensì “deve tenere l'essere presente al pensiero” (cogito ergo aliquid est) (L’uomo può e deve solo andare alla scoperta di quale senso abbia il mondo).
Dunque non è il manifestarsi dell'essere che avviene nel linguaggio, bensì l'apertura dell’uomo all'essere si serve “anche” del linguaggio. L'esercizio del linguaggio non rende esclusivamente accessibili gli enti, che prescindono nella loro esistenza e funzione dal fatto che l’uomo li indichi per conoscerli.
Precedente il linguaggio e “in re” è l'idea. Il contatto con gli enti non necessita obbligatoriamente del linguaggio. Il linguaggio diviene imprescindibile solo quando l’uomo si rivolge ad altri uomini, nell’ambito della comunicazione.
Di fronte alle cose e agli eventi l’uomo, preso nella sua singolarità, non si serve assolutamente del linguaggio per conoscere, ma fa scaturire il linguaggio dal suggerimento che cose ed eventi portano a galla in forza di quella implicita e naturale struttura che essi hanno per poter essere acquisiti dalla mente dell’uomo. L’uomo, quindi non inventa nulla, nemmeno il linguaggio, ma scopre, porta alla ribalta dell’intelligenza quanto è già insito nell’universo.       
Per questo il segno e il linguaggio (sistema di segni) sono un medium “in quo cognoscimus rem”(nel quale conosciamo la cosa) o “quo cognoscimus rem” (con cui conosciamo la cosa) e non “quod cognoscimus” (ciò che solo conosciamo), come ribadisce Eco nel suo “Il nome della rosa”.
La partecipazione dell’io alla definizione della realtà è dunque preponderante, se si tratta di gettare un ponte tra il pensiero e l’essere, come sforzo e impegno nel fare corrispondere il livello di quiddità comunicato (cioè ciò che noi vogliamo con precisione dire di ciò di cui siamo certi nella conoscenza) al livello di quiddità conosciuto (cioè ciò che noi veramente sappiamo identificare bene in ciò che abbiamo conosciuto).
Non lo è, se la partecipazione dell’io viene presa come alibi per affermare il cogito ergo sum o per suffragare lo scetticismo circa l’impossibilità di attingere l’essere compiutamente e quantitativamente, invocando il relativismo e il soggettivismo dei sensi ingannevoli. Infatti, senza ammettere la graduazione dei livelli di quiddità, diventa impossibile credere che la conoscenza sia “olistica” e, per così dire, compiuta attraverso le illuminazioni folgoranti.
In questa ottica, dunque, interessa molto distinguere la funzione del linguaggio nella conoscenza dell’essere, dalla possibilità del linguaggio di “fondare l’essere” e di dare ordine a ciò che è disordinato.
Intanto, nella definizione taddeana delle possibilità del linguaggio, non è contemplata la funzione totalizzante da parte del linguaggio stesso di esaurire il significato dell’essere, proprio perchè nessun sistema di idee e di linguaggio può autodefinirsi senza fare riferimento a principi esterni al sistema stesso (Teorema di Gödel), al fine di evitare la autoreferenzialità degli assunti.
In matematica come in linguistica, come anche nella comunicazione si finisce per avere degli assiomi che fondano il sistema e lo offrono scientificamente alla prova della falsificabilità.
Secondariamente, il linguaggio interessa non per rivalutare ciò che a prima vista si pensa sia meno importante della realtà (il signum, come aveva detto Sant’Agostino nel De magistro), bensì per valorizzare quanto San Tommaso, a sua volta nel suo De magistro, ha detto del signum, cioè che nel signum sono contemporaneamente presenti “dato e problema”, cioè realtà e interpretazione della realtà.
In questo senso l’apertura dell’orizzonte dell’essere al linguaggio (la potenzialità di farsi cogliere nella comunicazione) contempla una parte essenziale oggettiva e una parte di correlato soggettivo.
Tutto ciò che il linguaggio aggiunge di soggettivo attraverso avverbi, aggettivi, perifrasi, diminutivi e altre variabili è puramente aggiuntivo e soggettivo e non sta attaccato mordicus (tenacemente) all’essere.
Pertanto proprio nell’uso del linguaggio, quando esso è funzionale a un sforzo di testimonianza e non di esercizio di potere, si specchiano le formule della vita sociale e del senso dell’essere nel mondo in modo autentico o meno. Essenzialità, precisione e pertinenza non sono quindi meri aspetti della retorica, bensì strumenti di affinamento di un servizio, che gli intellettuali della comunicazione dovrebbero avere ben presenti.
Quando poi si prende in considerazione il linguaggio dell’immagine, la distinzione tra capacità di riferimento da parte del segno alla realtà e componente del segno dovuta alla esistenzialità dell’autore, che si serve delle possibilità deformanti offerte dalla tecnologia, diventa di capitale importanza, anche in funzione di fondare una solida ossatura dell’etica. Quegli aspetti, che nel linguaggio parlato e scritto si definiscono parti variabili soggettive, diventano, a livello di immagine, meno percepibili come espressione dell’intervento umano ed erroneamente più attribuibili alla realtà e pertanto capaci di fondare un riferimento etico sbagliato, perché sbagliata è la supposizione che appartengano, a causa del modo di apparire, alla realtà e non all’interpretazione.
L’etica dunque finisce per essere induttiva e fondata sul linguaggio, o meglio su quella parte del linguaggio che dipende dall’uomo e dalla tecnica, anziché sul valore e sulla natura metafisica. Una etica, che si spaccia per tale, quando invece affonda le sue radici nel modo di apparire e non nel modo di essere.
Questo distinguere, nel mondo della civiltà post-moderna, l’essere dall’apparire non ha più a che fare con la contrapposizione parmenidea tra “essere” e “apparire”, bensì con l’esigenza di cogliere l’“essere” negli enti, attualizzando la questione, che si poneva nella scolastica e segnatamente in San Tommaso entro i limiti del superamento delle ambiguità della sofistica, attraverso strade note e sperimentate dal pensiero filosofico.           
Forse si può dire che Parmenide ha concepito il divenire come espressione sensibile e doxastica (opinabile), ma intellettivamente non pensabile e, dunque, non conoscibile; sicuramente, però, a Parmenide come a tutta la filosofia greca è estraneo il valore che ha la conoscenza intellettuale immediata.
La mentalità greca privilegia l'ossatura strutturata intellegibile, l'universale, rispetto a quanto si riferisce alla vita quotidiana, che per un greco è campo della casualità e del non-senso (vedi la difficoltà degli eroi greci della tragedia nel rendersi conto di ciò che sta loro capitando) oppure della semplice apparenza contrapposta alla verità.
Già Platone, ma ancora più decisamente Aristotele, percepisce il “salto” tra il livello sensibile, quello anche degli animali, e il livello delle certezze stabili grazie all'astrazione (aspetto intellettivo umano) e non alla illuminazione, tanto cara a Sant'Agostino e a tutta una linea di esistenzialisti. Per Sant’Agostino il giudizio (la combinazione dei concetti) prevale sull’importanza del singolo concetto; per San Tommaso il concetto (cioè la capacità di identificare con sicurezza) viene prima del giudizio.
La strada percorsa da Taddei tiene conto di tutto questo e, che ne fosse egli consapevole o meno, non evita neppure “il dubbioso passo” imposto dall’empirismo e dalla fenomenologia husserliana, quando coglie che la domanda metafisica (la ricerca dell’essere), implicita nel percepire, nell’accostarsi al reale tramite un primo contatto dei sensi, è resa possibile dalla più primitiva forma di prassi, cioè dal lavorio faticoso e riflessivo del pensiero, da un travaglio di ricerca e di analisi.
Tali attività, per quanto si sforzino, non riescono sempre a mantenere l’energica e forte immersione del senso nella percezione pura e semplice, ovvero nella esplorazione esaustiva dell’orizzonte dell’esperienza solo in base ai sensi. E il tema della concezione metafisica dell’essere, nell’indefinito interiore discorrere umano, finisce allora per chiamare in aiuto alla ratio il senso ineliminabile e ineludibile offerto dalla fides, aspetto non consolatorio, ma ben strutturato per la interpretazione del mondo reale.  
Per questo, il problema di definire “metafisica a priori” la ontologia della concezione taddeana della comunicazione intellettiva è del tutto secondario rispetto al fatto che, nella prospettiva di una filosofia di impronta teoretica, giustamente attualizzata, si realizza la possibilità di aprirsi all’essere attraverso il linguaggio (compreso quello dell’immagine), nella globalità di un approccio che rispetta i limiti dell’uomo e non lo illude vanamente di essere faber, per lasciarlo poi esistenzialmente sconfitto nella impossibilità di avvicinarsi alla verità.
Le teorie della comunicazione di impostazione quantitativistica, attualmente egemoni nel panorama della editoria e degli studi di semiotica, riproducono, invece, una concezione materialistica e puramente tecnica della comunicazione, che non aiuta minimamente l’uomo ad avere fiducia nella possibilità di raggiungere livelli indiscutibili di conoscenza. E questa è una delle tante contraddizioni che animano proprio il pensiero di chi ama ancora sostenere il ruolo dell’uomo faber, a prescindere dalla sua finitezza.
Se tutto questo serve a far comprendere che, nella impostazione di Padre Taddei, non si dà filosofia come fatto oggettivo, bensì solo come fatto relazionato alla gnoseologia e che, quindi ci sono tante filosofie che rispondono ad approcci diversi alla natura e alla cultura, tuttavia serve soprattutto per riconoscere che il valore della metodologia, sotto il profilo teoretico, è quello di fondare un adeguamento di pensiero forte per l’interpretazione del mondo, pur senza doversi dichiarare apertamente come filosofia, cosa che, allo stato attuale delle elaborazioni di tanti intellettuali, rischierebbe solo di essere interpretata come un tassello in più nell’universo del relativismo culturale e, pertanto, per nulla gradita a un pensatore del calibro di Taddei.
 
Dalla metafisica all’etica attraverso gli apporti ignaziani.
Ecco allora che dal pensiero taddeiano si evince, non la teorizzazione della debolezza dell’essere, così cara agli esistenzialisti di stampo heideggeriano o sartriano, bensì la robustezza dell’apparato metafisico e la contemporanea acquisizione di un metodo scientifico, procedurale, operativo, che si esprime in modo inequivocabilmente univoco e unico come legge universale, vera fino a falsificazione dell’assunto.
Dunque in Taddei ci sono linee guida non solo tomistiche e neoscolastiche, ma anche gli echi di una modernissima filosofia della scienza che sintetizza gli aspetti più affascinanti delle posizioni di Wittgenstein, di Popper, di Gödel e di Eisemberg. Proprio per questo, al fondo della gnoseologia di Taddei, c’è la ragionevolezza di un assunto quale “Cogito ergo aliquid est”.
Restano perciò escluse le dipendenze metodologiche dal Cartesio del “Cogito ergo sum”e le conseguenze che ne sono derivate, prima nel razionalismo idealistico del “tutto ciò che è reale è razionale”, e poi nel pessimismo nominalista di Eco del“nomina nuda tenemus” e in quello relativista di Vattimo, secondo cui è la nozione di verità a doversi adeguare alla dimensione della finitezza umana e non viceversa.
La verità, che per Vattimo è invenzione, gioco, retorica che deve accettare il peso dell'”errore”, ossia del caduco, dell’effimero, di tutto ciò che è storico e umano, non è mai né traguardo cui tendere, né valore cui richiamarsi.
Al contrario in Taddei ci sono la ricerca e il rispetto per quanto secondo la buona filosofia della scienza è sottoponibile alla verifica della scienza della relatività (non quindi alla filosofia del relativismo) e della falsificabilità, ma non c’è assolutamente l’accettazione del relativismo quando esso, dalla cautela che si deve usare nel procedere sul cammino della conoscenza scientifica, pretende di trasferirsi alla dimensione dell’etica.
Come a dire che non è accettabile pensare il mondo della morale come un laboratorio dove prima si può sperimentare sulle cavie e poi decidere che, non essendo andato a buon fine l’esperimento, le cavie sono state un inutile spreco.
E proprio per quanto riguarda l’aspetto dell’Etica, nel panorama del pensiero di Taddei, essa, oltre a quanto più sopra s’è detto, prende forma e sostanza da una sintesi di due filoni della cultura cristiana d’occidente: l’insegnamento di Ignazio di Loyola e l’importanza che la scienza del metodo ha nella formazione della personalità, due aspetti, questi, comunque non facilmente disgiungibili.
Se la potenzialità nella elaborazione del pensiero, secondo Sant’Ignazio, contempla tre tipologie che includono l’esercizio del libero arbitrio, la suggestione del pensiero ispirato dal bene e quella del pensiero suggerito dal male, allora il problema del discernimento (cioè della rotta da seguire), così fondamentale in una vita individuale, che non voglia tradire un minimo di onesto rapporto relazionale con gli altri, non può fare a meno di servirsi di uno sforzo conoscitivo e chiarificatore nei confronti tanto delle cose e dei fenomeni, quanto dei segni e dei linguaggi che di essi parlano o descrivono. E tutta la tematica relativa al mondo della comunicazione non è, quindi, mai estranea alla dimensione della religiosità ignaziana. 
Dalla caratteristica di un rigoroso percorso deduttivo, insita in ogni principio etico, che si presenti in quanto tale, nasce l’atteggiamento taddeiano che ribalta completamente la ormai abituale impostazione di ogni morale corrente, che parte da un procedimento induttivo e che finisce per sostenere un relativismo tanto contraddittorio quanto inutile per la cultura di una società. Questo anche se, per merito e per colpa di Vattimo, è diventato più una comoda dottrina sociale che non una vera e propria filosofia o una pratica ascetica, come almeno in parte, qualsiasi morale richiederebbe.
L'etica, che attraverso una rapida scorciatoia di pensiero viene imparentata, oggi anche nel mondo cattolico, con il perseguimento del “bene comune”, dovrebbe essere, invece, quella partedella filosofia che ricerca e studia i fondamenti di ciò che viene applicato nella vita come buono, giusto e corretto, in contrapposizione a ciò che è male, o è sbagliato. Una visione dei fondamenti, dunque, qualitativa e non quantitativa come quella che parla di bene per tutti. Ancora una volta si confonde la realtà con il discorso sulla realtà. Nel suo statuto profondo, l’etica non può essere altro che la ricerca di una gestione adeguata della libertà o piuttosto il riconoscimento della importanza del libero arbitrio. Come tale diviene filosofia morale che ha come oggetto i valori morali che determinano il comportamento dell'uomo.
Sebbene esistano i due termini di “etica” e “morale”, essi sono spesso usati come sinonimi. Ma è bene distinguere perché il termine “morale” serve per indicare l’insieme di valori, norme e costumi di un individuo o di un determinato gruppo umano; la parola “etica” viene invece usata per riferirsi all’intento razionale (cioè filosofico) di fondare la morale intesa come disciplina.
La “filosofia pratica” taddeiana reagisce contro la pretesa neutralità rivendicata dalla tendenza odierna delle etiche sociologica e psicologica, perché non trova corretto servirsi né delle generalizzazioni dell’una né delle giustificazioni soggettivistiche dell’altra. Infatti, pur rinunciando ad un eccesso di razionalità e valorizzando piuttosto la ragionevolezza, la filosofia pratica non pretende dall’etica il medesimo rigore e la medesima precisione che si richiedono alla matematica, ma si limita a riconoscere l’esigenza di un richiamo a imprescindibili criteri generali, che sono comunque da attualizzare, da inculturare nella dimensione di una concreta realtà e di una concreta società.
L’etica non è una scienza fine a sé stessa così come la metodologia in senso taddeiano non è una elaborazione in astratto. Anche se questa le si avvicina molto, senza identificarsi totalmente con essa, vuole comunque orientare la prassi, cioè concepire il sapere pratico come strettamente agganciato all'esperienza. E poiché l’esperienza diretta è alla base solo di una piccola parte della conoscenza, mentre la stragrande maggioranza delle conoscenze deriva oggi da una comunicazione interpersonale e di massa, mediata dalla tecnologia, ecco allora che la sistematica del pensiero taddeiano è orientata al realismo e alla conoscenza dell’essere, a partire dagli enti, così come essi sono rappresentati nella comunicazione con l’immagine. E’ questo il terreno su cui germoglia sempre più spesso la speranza, per non dire la certezza, di uno strumento educativo capace di dotare di valide armi concettuali l’impegno pedagogico di quanti avvertono il peso dell’attuale disagio per una mentalità, che pervade ormai più di una generazione e che è incapace di fronteggiare lo sgretolamento di una intera civiltà.  
 


[1] Esiste infatti una zona specializzata del cervello, l’area di Broca, nella quale nasce la grammatica. Lo ha scoperto una ricerca condotta in collaborazione tra Italia e Germania e pubblicata sulla rivista Nature Neuroscience. "La nostra scoperta è la prima dimostrazione biologica dell'esistenza di una struttura che organizza la cosiddetta Grammatica universale ipotizzata dal linguista Noam Chomsky", ha detto il linguista Andrea Moro, dell'Università San Raffaele di Milano.   ANSA - Roma, 22 giugno 2003
 
[2] La sola conoscenza attraverso i sensi può essere illusoria e non cogliere l’essenza circa la realtà.
[3] Per questi aspetti rimandiamo a quanto abbiamo già sottolineato nel nostro studio: “Metodologia della comunicazione e cultura dominante” in Edav n. 246 del 1997.
 


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