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CHI HA PAURA DELLA METODOLOGIA? Trascorsi e prospettive di un disegno educativo


di LUIGI ZAFFAGNINI
Edav N: 394 - 2011

Uno sguardo diverso alla biografia di Padre Nazareno Taddei.

A scorrere la biografia di Nazareno Taddei s’incontra di frequente lo stato di difficoltà umana ed esistenziale in cui, come studioso e come religioso, si è venuto a trovare a causa delle posizioni assunte circa la valutazione di un film o circa la fermezza con cui ha difeso la propria visione del linguaggio e dell’uso dei media in campo formativo e pastorale. Emblematici in questo senso sono stati i casi de LA DOLCE VITA e l’attacco subito nel 1981 su «L’Espresso», quando prese forma il Progetto di «Educazione all’Immagine» per il MPI. Altre manifestazioni di avversari culturali e altri, ancora, di «fuoco amico» o di non-considerazione nei confronti delle sue posizioni, sono stati comunque un leit-motiv di fronte al quale né l’uomo, né lo studioso, né tanto meno il sacerdote ha mai chinato il capo in modo rassegnato.

Eppure, piú rileggiamo a fondo l’impianto metodologico e costatiamo come esso si applichi in modo concreto ai processi educativi, formativi e pastorali, rendendoli fecondi sul piano spirituale, piú si fa forte in noi un convincimento. Il convincimento che gli ostacoli, che la sistematica taddeiana, la sua applicazione e approfondimento hanno incontrato e incontrano, siano dovuti a ben altri motivi che non quelli immediatamente percepibili nella vicenda personale del padre Taddei. Per ragioni oggettive possiamo individuare il livello che aiuta a scoprire le vere ragioni che hanno, almeno fino ad oggi, rappresentato un ostacolo alla affermazione diffusa della teoria sulla comunicazione intellettiva nell’era dell’immagine. Tale livello è quello del vasto panorama culturale e della mentalità in cui sono venuti a collocarsi l’opera e il pensiero dello studioso e del sacerdote. Ne accenneremo per sommi capi, ma in maniera tale che si possa capire bene a che cosa intendiamo riferirci, anche perché siamo certi che, ormai, l’argomento meriti un approfondimento appositamente dedicato.

 

I tempi e l’orientamento culturale.

Prendiamo, dunque, a prestito da un giornalista1 la definizione che egli dà, in un suo recente libro, degli uomini di cultura in Italia: «I conformisti», per estenderla addietro, oltre l’ultimo quindicennio (quello cui si riferisce il libro) e per ampliarla al panorama delle teorie scientifiche sulla comunicazione.

In effetti, le costruzioni sistematiche di Taddei, in materia di linguaggio dell’immagine e di struttura della comunicazione intellettiva, a partire dai primi anni sessanta, cadono nella palude di un diffuso orientamento della cultura e dell’editoria italiane egemonizzato fin dal dopoguerra da un pensiero critico materialista. Tale orientamento è tutto proteso a estendere su ogni branca del sapere, della critica, dell’arte, della letteratura e della scienza una visione che sia in linea con la «corretta» prospettiva marxista della cultura. Essa viene intesa come semplice sovrastruttura dell’economia e quindi funzionale al disegno della lotta di classe, il cui obiettivo, la presa del potere, va realizzato non piú con la violenza rivoluzionaria, ma attraverso l’egemonia culturale.

Tutto questo non accade in Italia per caso, ma per quello che qualcuno ama chiamare «Compromesso culturale degli anni quaranta tra De Gasperi e Togliatti»2.

Non si tratta certo di un patto redatto e stipulato ufficialmente, ma di un accordo di fatto, che si realizzava, giorno dopo giorno, nella vita quotidiana dell’intero paese. Potremmo definirlo in questo modo: ai moderati il potere formale, senza legittimazione di mentalità e di cultura; ai loro oppositori la legittimazione nelle piazze, attraverso una propaganda militante e di massa, che rappresentava un potere reale per via della risonanza massmediale che la mentalità cui dava origine assumeva in ogni settore della vita pubblica.

Una volta concordata tra i padri costituenti la scrittura della Costituzione, infatti, accadde qualcosa che si ripercuote ancora sulla attuale situazione. Nella piú completa e miope noncuranza delle forze moderate e democristiano-cattoliche, il settore della cultura nelle sue varie articolazioni fu lasciato in mano a forze laiciste, marxiste e, comunque, anti-cattoliche. In cambio – e s’è visto, poi, com’è andata a finire – le forze politiche moderate (che per nulla avevano idea della portata di quanto aveva detto Gramsci a proposito di egemonia culturale e di intellettuale organico) si tennero la direzione dell’economia, le banche e l’apparato burocratico e di sicurezza dello Stato.

Nulla di strano, quindi, che in un contesto culturale di questo genere, anche nell’ambito delle scienze, non propriamente esatte come la semiologia (definita per altro come semiotica), ci si piegasse, per quanto riguarda i meccanismi della comunicazione tra esseri umani, ad assoggettarla al modello della teoria dell’informazione di Shannon, che valeva (e vale) espressamente per la trasmissione di dati tra macchine.

Tale modello, basato sulla quantità dei segnali che passano da una trasmittente a una ricevente, esercitava un grande fascino sugli intellettuali imbevuti di fede nel progresso. Essi potevano cosí avvalersi di un meccanismo incontestabile per spiegare i rapporti comunicativi tra esseri umani in termini meccanicisti analoghi a quelli della connessione tra le macchine.

Non è un caso che da quell’impostazione dello strutturalismo marxista, che fu della Scuola di Praga e di Roman Jakobson, venga l’adozione del modello linguistico della comunicazione che, ancor oggi, nell’editoria scientifica, scolastica e non, nessuno osa mettere in discussione. Né è un caso che la crescente attenzione per il processo comunicativo abbia rafforzato la sola versione che interessava gli intellettuali, quella, cioè, filtrata attraverso gli apporti (e gli imbastardimenti) offerti da una vasta saggistica di sociolinguistica e di psicolinguistica.

Tali contaminazioni avevano il vantaggio, agli occhi degli studiosi, di temperare l’aspetto tecnicistico, mutuato dalla teoria dell’informazione, corredandolo con quel tanto di umanistico che sociologia e psicologia parevano portare con sé. Ma nessuno si accorgeva che anche questi territori delle scienze umane erano stati seminati con una componente ideologica che, a prescindere da quelle che erano le radici sperimentali fondanti di tali discipline, aveva (e ha) una funzionalità del tutto contigua con una visione materialista dell’uomo, dei suoi bisogni e delle sue manifestazioni.

Per quanto riguarda la sociologia, la cosa è piú immediatamente comprensibile per via delle contaminazioni che essa ha portato nel dibattito politico e nell’uso del quantitativismo statistico che induce alle generalizzazioni. Per quanto riguarda la psicologia, le cose sono, forse, piú facilmente intuibili se si pensa a tutta l’importanza che ha assunto il processo di libertà-liberazione del costume in chiave soggettivistica, fortemente connotato dal ruolo trainante che le pulsioni e le percezioni sensoriali hanno, secondo questa visione, nel determinare i comportamenti umani.

 

Fondamenti di pensiero.

Orbene, nel bel mezzo di questo clima, che, se non è di robusta cultura, è pur sempre di mentalità diffusa, cade l’intervento scientifico di Taddei. Nell’arida pianura del conformismo il giovane gesuita scava una fonte, che non ignora lo stato degli studi sulla comunicazione, ma che promette di erogare una linfa vitale per la libertà dell’uomo e per la capacità di arrivare al fondo della natura dei messaggi.

Taddei non inventa nulla di nuovo (allo stesso modo di come nessuno scienziato non inventa né teorie né leggi che non siano già presenti in natura), ma scopre nuove relazioni e nuove architetture nel mondo dei segni e dei linguaggi e, soprattutto, mette in risalto la dimensione qualitativa e intellettiva della comunicazione umana.

Nel far questo va oltre il tecnicismo di chi intende spiegare il linguaggio cinematografico semplicemente chiamando in causa lo «specifico filmico», identificato nella tecnica di ripresa o di montaggio. Ma egli va, anche, oltre la critica cinematografica, che non ha sempre chiara la distinzione tra il piano della lettura e quello della valutazione e si addentra tra gli aspetti costitutivi del linguaggio, mettendo in risalto, soprattutto, la necessità di studiare a fondo le «comunicazioni inavvertite» e i loro effetti.

 

La questione del realismo.

Taddei attribuisce un valore diverso alla distinzione tra «vicenda» (storia) e «racconto» (discorso), introdotta e dibattuta nell’ambito della narratologia da Chatman e da Genette3.

Mentre in questi autori, salvo alcune sottigliezze, storia e vicenda si riferiscono al piano del contenuto, e discorso e racconto appartengono a quello dell’espressione, cioè a quello del modo di narrare, Taddei insiste sul fatto che, anche a livello di vicenda (il cosa), esistono dei livelli di conoscibilità che dipendono dal modo di narrare dell’autore e che, pertanto, non esiste una vera e propria presenza della realtà all’interno della narrazione, se non in quanto subordinata alle scelte linguistiche dell’autore (una parte dei come) e dipendente dalla esistenzialità di esso.

Lo stacco tra «realtà conosciuta» e «narrazione della realtà», che è presente in ogni fenomeno comunicativo, si fa ancor piú evidente nel linguaggio delle immagini e Taddei chiarisce, senza esitazioni, la funzione della lettura strutturale come unico strumento per giungere, non già alla informazione sulla realtà, come accade nell’esperienza diretta, bensí alla conoscenza della interpretazione della realtà, cioè alla idea dell’autore, ovvero a una indiretta e quanto mai personalizzata versione dei fatti.

Sulle prime, a un superficiale sguardo, potrebbe sembrare che tale orientamento vada verso quelle posizioni di soggettivismo critico che poi sfoceranno nel pan-relativismo dei giorni nostri. Sembrerebbe, infatti, che, sottolineare la dimensione interpretativa, volesse dire giustificare lo scetticismo sulla possibilità oggettiva di giungere a un significato univoco dei messaggi e si scivolasse verso quell’assunto di valore polisemico del linguaggio, che tanto piace, perché tanto serve a confondere le acque del senso.

A un esame piú attento, però, ci si accorge che questa teoria della comunicazione con i suoi elementi è, invece, decisa oppositrice di ogni approssimazione e di ogni superficialità semantica. Prima di tutto perché separa nettamente la conoscenza della realtà che appartiene al Comunicante dalla conoscenza di segni che appartiene al Recettore; in secondo luogo perché, per essere validata, richiede rigore e procedura scientifica (potremmo dire d’impronta ‘popperiana’) nel costante confronto istituito tra il mondo reale dei fenomeni e quello virtuale delle immagini. Un vero e proprio protocollo di operazioni, che salda insieme, in una sorta di laboratorio virtuale, metodo della lettura e feed-back di esperienza, senza accontentarsi di affermazioni puramente teoriche.

Ma, quello che piú stupisce nella questione del realismo, senza voler, per altro, istituire una forzatura nel raffronto, è che, nella indagine taddeiana sul rapporto tra realtà e segno, per come egli l’ha sviluppato, si ritrovano le radici di un vecchio problema. Si ritrova lo stesso contenuto culturale che, nell’ambito della fisica moderna, ha investigato sull’esistenza dell’oggetto fisico in assenza dell’osservazione dell’uomo. A questo problema Einstein, de Broglie, Schrödinger hanno risposto in modo affermativo, schierandosi, però, per un significato di ‘realtà fisica’ in senso anti-materialista4. Per essi la conoscenza che sta alla base della fisica è nient’altro che il tentativo di afferrare concettualmente la realtà, indipendentemente dal fatto di essere osservata. In questo senso, pertanto, si può parlare di «realtà fisica»5. Gli esperimenti e l’elaborazione teoretica quantistica6, poi dal canto loro, hanno ulteriormente contraddetto l’ontologia del materialismo, che, in questo campo, era costituita dal credere che le parti piú piccole del mondo reale esistano nello stesso modo in cui esistono pietre e alberi. Si è fatta, cosí, giustizia, dal punto di vista della filosofia della scienza, di tutte le deviazioni hegeliane e idealistiche, che tuttavia rimangono nel mondo degli intellettuali di stampo umanistico ideologizzato.

Taddei, dal canto suo, nella sua inclinazione verso il realismo, percorre, sul piano della metodologia e della semiologia, lo stesso cammino realista ma anti-materialista, che le elaborazioni della scienza moderna avevano già introdotto. Ma, se tali impostazioni avevano suscitato un certo scandalo nell’ambito della fisica, a maggior ragione scandalo suscitano ora in seno a una disciplina colonizzata dal materialismo come quella della comunicazione.

Taddei, da un lato rifiuta di considerare la conoscenza come possesso di nominanuda7 e, dall’altro evita l’ontologismo materialista. Egli parla serenamente, ma decisamente, di ‘realtà’, di ‘cosa’ e di idea della cosa conosciuta’, nonché di tenere ben separati i significati della ‘cosa in sé’, da quelli della ‘cosa rappresentata’ ‘in quanto cosa’ e ‘in quanto rappresentazione’ e da quelli della ‘rappresentazione’.

Anche in questo caso sorprendente diventa la scelta linguistica, che s’inscrive nel solco di quanto Einstein aveva affermato a proposito del fatto che nessuno pensa con le formule e che le idee fondamentali della scienza si possono anche esprimere in forma chiara, semplice e intuitivamente logica, in modo che queste idee possano incidere sul costume, sul modo di pensare e sul senso comune della gente8

Non sono, allora, giochi di parole, perché in questa casistica, cosí ostica ai piú frettolosi tra i critici cinematografici, è sottinteso il grande valore che la realtà assume quando è oggetto di esperienza diretta e quando chi la legge sa arrivare alla sua intima essenza9.

In tutto questo Taddei coglie bene lo spirito del ragionamento logico, che è caratteristico dell’atteggiamento dello scienziato moderno, che deve sempre avere ben presente che la parola ‘realtà’ è anche una parola, una parola che si deve imparare a usare correttamente. Proprio come fanno gli studiosi della fisica moderna, sia essa quantistica o no, che, diversamente dai materialisti di vecchio stampo, sanno bene che lo scopo della fisica non è misurare la dimensione materiale della natura, ma scoprire quello che è corretto e legittimo che lo scienziato dica circa la natura per ben disegnare il concetto di realtà10.

Nell’ambito della comunicazione, pertanto, se s’ignora la posizione taddeiana, proprio il discorso sulla realtà, che dovrebbe stare a cuore ai fautori di ogni procedimento scientifico, non trova adeguata considerazione nel processo di Jakobson derivato da Shannon, perché in esso, insieme con l’impianto materialistico, viene privilegiato (benché questa contraddizione passi inosservata ai piú) l’assunto che il vero centro nevralgico non è la realtà, ma l’individuo con il suo punto di osservazione soggettivo.

Nonostante questo relativismo di prospettiva – e qui è un’altra contraddizione degli studi che si muovono su un piano diverso da quello di Taddei – c’è, nei seguaci della visione della ‘comunicazione-informazione’ jakobsoniana, quando si schierano per un’interpretazione ideologica del mondo, la pretesa che certi contenuti della comunicazione valgano come testimonianza sostitutiva della realtà e che pertanto assurgano, comunque, a dignità etica e di modello, soprattutto quando fanno scendere in campo una fonte emittente considerata autorevole.

Il tanto criticato ‘Ipse dixit’, che è sempre stato, giustamente, rinfacciato agli aristotelici dai fautori del metodo scientifico sperimentale, è invece, in fondo in fondo, il paravento, dietro cui si celano l’ambizione manipolativa e il nuovo fideismo storicista degli studiosi di comunicazione, fulminati sulla via di Damasco dalla suggestione materialista del modello comunicativo jakobsoniano.

 

Il corollario della storia.

En passant diciamo, poi, che sono la storia e la modalità di divulgazione di essa il terreno sul quale si esercitano maggiormente l’egemonia culturale e lo sforzo degli intellettuali conformisti. Loro obiettivo è, infatti, far valere una lettura di essa che venga suffragata sí da documenti sui fatti, ma che, soprattutto, sia imposta attraverso la ridondanza e la convergenza di opinioni «autorevoli» sulla medesima versione. Si verifica, in questo caso, infatti, scopertamente, quanto Jean François Revel dice a proposito del modo di comportarsi di tutti gli storiografi ideologizzati, che si ritengono dispensati da obblighi intellettuali, pratici e morali. La dispensa consiste prima di tutto nel riferirsi «solo ai fatti favorevoli alla tesi che si sostiene, inclusi quelli inventati totalmente e negare gli altri, ometterli, dimenticarli, impedire che siano conosciuti»11 . E qui sta l’arroganza manipolativa.

Se a questo aggiungiamo che la mentalità prodotta dai media e il sistema culturale basato sulla divulgazione di epopee storiche ideologizzate, come quelle diffuse almeno da un secolo e mezzo in Italia, si rinforzano a vicenda, allora assistiamo a una forma d’invadente religione celebrativa delle umane vicende, i cui sacerdoti sono gli intellettuali conformisti. E qui sta il fideismo storicistico attivo e passivo di tanti studiosi.

Le indicazioni metodologiche di Taddei, invece, nella loro funzione de-massificante e anti-strumentalizzante, portano, come conseguenza della lettura strutturale, la persona che la adotta con rigore ad accorgersi, prima o poi, dell’importanza di separare quanto appartiene alla natura dei fatti da quanto è soggettivamente dovuto alla scelta dell’autore.

Si può ben comprendere, allora, che è bastata questa impostazione per agitare le acque di quel conformismo che trova comodo far credere che nella comunicazione (soprattutto in quella per immagini) si trovi una documentazione veritiera della realtà, quando detiene l’egemonia nel mondo della cultura e soprattutto dell’informazione di massa.

Inoltre, chi sostiene che il passaggio quantitativo dei dati permette un risultato migliore in base alla ridondanza di segnale, cioè alla ripetizione o alla intensità di livello dello stesso contenuto (cose tutte insite nel modello materialista della comunicazione), non vorrà mai accettare una teoria della comunicazione, come quella taddeiana, in cui l’aspetto qualitativo predomina su quello quantitativo. In cui, cioè, perché si raggiunga l’obiettivo della comprensione del messaggio, non importano né quantità, né ridondanza di segni ma precisione, pertinenza ed essenzialità dei medesimi.

Tutto questo è implicito nella stessa schematizzazione del processo comunicativo tracciato da Taddei secondo il noto modello «r-C-S-R», dove la realtà (r) è l’imprescindibile elemento (assolutamente trascurato negli schemi compendianti le altre teorie) rispetto al quale si costruisce tutto il fenomeno della conoscenza e dell’espressione intellettive. Tuttavia questo, che è solo una minima parte del potenziale dirompente che è insito nella sistematica dello studio taddeiano sulla comunicazione e sui linguaggi dell’immagine, già è bastato a sollevare obiezioni contro la lettura strutturale o a relegarla nell’ambito delle esercitazioni tecniche di scomposizione del film.

 

Non solo il tomismo.

La giustificazione addotta da avversari e disinteressati per minimizzare la portata del discorso taddeiano è fin dall’inizio equivoca e mai apertamente dichiarata in un confronto di posizioni, ma nascosta dietro una vaga accusa di antiquato tomismo, unita a quella di semplicismo culturale12.

Da un’accusa di tal fatta si sarebbe dovuto rifuggire, in ogni caso, visto che Taddei per primo ha ammesso, evidenziandone la modernità, il pensiero tomistico come origine della sua sistematica. E, anche a prescindere da questo, non esiste motivo scientifico per rigettare una paternità di tal genere, soprattutto se essa serve, assai piú di ogni altro strumento d’indagine, per gettare luce sulla complessità dei linguaggi e sulle gerarchie dei significati nel processo di costruzione del senso di un film. Ma, non esiste motivo, anche perché il tomismo non è l’unico elemento della metodologia della lettura strutturale. Ci sono aspetti che abbiamo toccato in altra sede (v. Edav n. 351), altrettanto e piú importanti del tomismo, che costituiscono uno snodo essenziale del pensiero di Taddei e che trasferiscono nell’ambito della lettura dell’immagine intuizioni che, in altri campi, sono degne della massima attenzione, perché appartengono a dimensioni corrette del ragionamento e dell’esperimento scientifico.

Ci riferiamo, nell’ambito della fisica moderna, agli studi che hanno sondato in chiave quantistica il fenomeno della luce. Infatti, il comportamento della luce, per quanto riguarda i processi di emissione e di assorbimento, deve essere interpretato in base a una natura corpuscolare; viceversa altri fenomeni, originati dalla stessa radiazione luminosa, richiedono, per essere spiegati, di far ricorso a una natura ondulatoria.

Quello che è interessante, ai fini del nostro discorso, è che in nessun fenomeno è necessario far intervenire simultaneamente l’aspetto corpuscolare e quello ondulatorio, perché la radiazione, a seconda del processo in osservazione, presenta l’uno o l’altro aspetto, pur essendo tutti e due compresenti e complementari nella sua natura. In termini molto semplificatori si potrebbe trovare un’analogia con le due facce di una moneta: quando se ne vede l’una non è possibile osservare l’altra.

Questo dualismo ondulatorio e corpuscolare, costringe ad ammettere che, anche nei fenomeni fisici, non è il fatto quantitativo a essere la costante che permette di esaurire nella misurabilità l’analisi dei fenomeni, bensí un corredo di aspetti quantitativi e qualitativi. Nel caso specifico della luce, ad esaurirne il significato (cioè ad esprimerne la natura) sono le variazioni di comportamento, che non dipendono dalla quantità di fotoni trasmessi, bensí dalla modalità della trasmissione stessa (basse o alte frequenze) e dalla capacità dell’osservatore di riuscire a coglierne entrambi gli aspetti.

Inutile aggiungere che l’estensione della dualità delle radiazioni anche alla natura delle particelle subatomiche, sostenuta dallo scienziato Louis de Broglie, scandalizzò il mondo della fisica classica in pieno secolo XX, che si vide costretto a una sintesi tra i due rami della fisica, quello della meccanica e quello dell’ottica. Altrettanto scandalosa appare oggi, agli occhi dei conformisti della comunicazione, la sintesi di logica e di armonia nel percorso di attribuzione del significato e del valore di un film, che si può riscontrare nella teoria taddeiana.

Se ci spostiamo, infatti, nell’ambito della metodologia della lettura strutturale, il primo aspetto che balza agli occhi è l’impostazione logica del percorso che va adottata anche là dove sembrerebbe si dovesse farne a meno, come quando si deve investigare il modo di procedere di un racconto filmico che sembra suggerire solo una partecipazione emotiva dello spettatore.

Se il film raggiunge la capacità di «parlare» al pubblico, ciò vuol dire che esiste una logica tale per cui, anche quelli che lo spettatore crede siano solo sentimenti o emozioni che prova, in buona sostanza sono i punti focali ai quali il regista vuole portarlo, per far passare tramite essi il suo modo di intendere la vita e i problemi ad essa connessi. In fondo, quindi, per il regista si tratta di far passare concetti e idee, travestendoli da emozioni. A questo scopo si serve del potenziale insito nel linguaggio dell’immagine.

Se nell’opera filmica si realizza un’armonia strutturale tra il modo di esprimersi del regista e la natura dei contenuti di cui si occupa, il risultato sarà comunque interessante. Diversamente, apparirà manifesto l’aspetto didascalico o puramente propagandistico o, ancora, effettistico.

Al lettore metodologicamente formato spetta il compito, attraverso una sorta di processo indiziario, di scoprire e seguire la logica che sorregge il film per rivelarne prima il contenuto mentale e poi per valutarlo secondo parametri che rispettino il mondo dei grandi valori morali e spirituali della sua civiltà, religione, cultura.

Il secondo aspetto, in seno alla metodologia taddeiana, che ricorda l’atteggiamento della scienza fisica moderna, dopo la necessità di collocare su un piano logico-scientifico l’azione rivelatrice del significato, è quello che coglie, proprio in particolari momenti, la duplicità di certi aspetti del segno non riducibili alla pura dimensione quantitativa. Quando, infatti, si deve individuare la gamma dei cosiddetti C1 e C2 (cioè i modi di essere delle cose rappresentate che rinviano alla realtà o alla realizzazione del segno) e si fa riferimento al livello al quale essi possono essere considerati, si assiste proprio alla duplice possibilità di manifestazione dell’essere sotto il profilo del quantitativo e sotto quello del qualitativo. Non si tratta, infatti, di effettuare misure quantitative per stabilire se essi appartengano a questo o a quel livello, ma, piuttosto, di scorgerne la duplice funzione (di “cosa” che diventa “come” se guardata al livello superiore) e di accedere, quindi, al significato che assumono se appartenenti al versante degli attributi di qualità riscontrabili nella realtà oppure al versante degli attributi aggiunti per il tramite della tecnologia e dipendenti quindi dalla volontà dell’autore dell’immagine.

Si tratta, chiaramente, di un punto «non facile» della metodologia, ma non ignorabile, come invece molti hanno fatto, perché questo e altri aspetti influiscono poi nella individuazione e nella classificazione del tipo di idea (documentaria, narrativa, poetica, tematica ecc.) che sta dietro ogni messaggio e nella corretta lettura del suo significato.

 

Il valore della gerarchia nella conoscenza.

Ecco, dunque, che l’aspetto piú appariscente della metodologia diviene l’architettura globale e sistematica della gerarchia degli elementi secondo la quale si perviene alla attribuzione sicura del significato e del valore di messaggio. Questo orientamento procedurale, in effetti, non può definirsi altrimenti se non di natura tomistica o, quanto meno, Scolastica, ma, a perturbare lo stagno dei fautori della visione materialistica della comunicazione, è piuttosto il fatto che in tutto il discorso sulla lettura strutturale è fortissimo il concetto di gerarchia e di struttura piramidale della conoscenza, che cozza prepotentemente contro tutte le tendenze alla immediatezza, allo spontaneismo e alla creatività emotiva, che sono sottese alla concezione che vuole il significato di un’opera di comunicazione (quindi anche del film) con-creato dall’apporto che il fruitore dà all’opera dell’autore. E, poiché l’ambito dei linguaggi è quello dove maggiormente e piú facilmente si esercita una manipolazione anche ideologica del consenso, non è difficile immaginare il disappunto che una teoria della lettura dell’immagine, che individua l’origine della massificazione e della strumentalizzazione, deve aver provocato in chi aveva tutto l’interesse, sotto il profilo dell’egemonia culturale, a giostrare con le parole intorno ai contenuti, alla tecnica e alle emozioni suscitate nel pubblico, per giudicare i film secondo il metro della propria visione ideologica del mondo.

 

Hedeggerismo vs realismo.

Gli anni in cui cadono gli studi sulla comunicazione filmica di Taddei sono, sul piano filosofico, quelli del progressivo convincimento tra gli uomini di cultura che l’heideggerismo sia una componente fondamentale del sapere utile alla formazione delle coscienze critiche, in sostituzione di un’impalcatura scolastica. Allo stesso modo, i germi del relativismo e del cosiddetto «pensiero debole», in questi anni, cominciano a prendere piede e avanzano nella costante azione del privilegiare la dimensione pragmatica dell’etica anziché quella teoretica e metafisica. Nell’ambito degli studi di semiologia e di linguistica, poi, si fa strada l’affermazione che la conoscenza sia sostanzialmente nominalistica e quindi vuota di qualsiasi addentellato con la realtà.

Taddei, al contrario, combatte una guerra scientifica in nome di un imprescindibile aggancio al realismo. Per quanto parte della sua terminologia sia ostinatamente «originale» (Contorni 1 e 2) e di derivazione tomistica (Quiddità), essa, però, non manca mai di essere un utile strumento per definire la distinzione che, di fronte ai messaggi e ai loro linguaggi, esiste tra ciò che ha a che fare con la realtà e la sua essenza e ciò che ha a che fare con l’apparenza della realtà e con i segni che la indicano o la rappresentano.

Allo stesso modo, la distinzione tra Rappresentazione ed Espressione e l’insistenza sul valore della testimonianza e sulle tracce di verità o di non-verità che si stendono tra realtà, idea dell’autore e segno, sono un’arma potente che chiama in causa la responsabilità morale dell’individuo quando comunica e quando attribuisce un significato al messaggio di altri.

Troppe sono, dunque, le implicazioni etiche che sono contenute nel procedimento metodologico e che, pertanto, non possono che essere sgradite a chi è convinto che lo spirito della modernità si debba affermare anche attraverso una cancellazione dei procedimenti «step by step» (passo dopo passo), che sono faticosi, impegnativi, magari noiosi e che, soprattutto, richiedono una costante circospezione per non commettere passi avventati.

Quell’esercizio di discernimento, che chiama in causa l’equilibrio del giudizio nell’esame del significato del testo filmico, assomiglia a quanto deve fare l’attento scienziato medico nella sua diagnosi in base a cui ne va della salute del paziente. Nel campo della lettura strutturale che assomiglia a una diagnostica per la salute mentale c’è, similmente, qualcosa di troppo cauto e ponderato per potere andare d’accordo con la frettolosa rincorsa di un risultato da dare in pasto al pubblico consumatore di immagini. E allora, meglio liquidare lo studioso che sostiene tale procedura, come antiquato «tomista» e ironizzare sull’assioma «l’immagine di una seggiola non è una seggiola».

In realtà, quello che fa paura della metodologia della comunicazione e della lettura strutturale non è quel tanto di scolastico, che indubbiamente c’è in ogni buona impalcatura del sapere, e non è neppure il fatto che la categorizzazione delle idee centrali di un testo in immagine o filmico mandi in frantumi tutta la costruzione delle funzioni della lingua cosí come la ha impostata Jakobson (v. Edav 369). Quello che veramente può spaventare i benpensanti e i conformisti è il rigore al posto dell’approssimazione, è la tenace autodisciplina mentale che sta nascosta dietro le operazioni di lettura del film e che è funzionale alla formazione della personalità dell’individuo secondo criteri di un valore che, anche in fatto di metodo, esige uno spessore etico ed educativo. E’, in poche parole, lo scoprire, e non voler ammettere, che l’obiettivo raggiungibile di una siffatta pedagogia tramite il film non è l’aiutare l’individuo a dare un significato certo a una storia per immagini, bensí è aiutarlo a essere autenticamente libero e forte nel costruire la propria personalità in armonia con il mondo esterno e gli altri, senza averne timore o soggezione e senza prevaricare nei confronti di essi.

Ma chi è, tra i conformisti, che può accettare di essere contraddetto nelle sue sicurezze culturali e di mentalità da una scuola di pensiero del genere? Una scuola poi, tra l’altro, che nel favorire la buona organizzazione del pensiero, si adegua perfettamente al mondo moderno delle nuove tecnologie, confinandole, però, al ruolo di strumenti e non già di fini, come tutti gli spasimanti del tecnicismo consumista fanno, quando inseguono l’ultimo gadget in commercio o l’ultimo effetto spettacolare di un film.

 

Il nocciolo duro del sistema.

Quanto fin qui abbiamo esposto rappresenta il versante meno immediato da comprendere del pensiero taddeiano, tuttavia non per questo spiega fino in fondo la ragione della difficoltà di affermazione e di accettazione senza contrasti della metodologia della lettura strutturale e della procedura algoritmica dell’educazione con l’immagine. C’è qualcosa di piú significativo, che conta molto di piú fuori e dentro quel mondo cattolico in cui Padre Taddei è vissuto con piena coscienza del suo ministero e della sua missione di seguace di Sant’Ignazio.

Se è vero che Don Bosco ricorse fin da giovane alla tattica delle pratiche del gioco per attrarre i ragazzi in quello che sarebbe poi diventato il fulcro di una pedagogia e di una educazione cristiana che ha conquistato il mondo intero, allora non deve meravigliare, fatte le dovute differenze tra carismi e personalità, che Taddei abbia utilizzato il cinema (la lettura del film) per intervenire sulla formazione della personalità, giovanile e non, e si sia proposto un progetto di liberazione dagli effetti negativi dei media, per orientare al Vangelo.

S’è detto piú sopra che sarebbe ingenuo, oltre che ingeneroso, credere che obiettivo del grande lavoro dello studioso e del sacerdote sia stato quello di aiutare a leggere bene un film. A che sarebbe servito, nel suo orizzonte ignaziano, giungere e far giungere a sviscerare il senso di un’opera di comunicazione umana, se non avesse preteso che, anche nel metodo per arrivarci, ci fosse una disciplina ascetica della conoscenza e della rivelazione, che adombra l’approccio alle verità di fede cristiana, pur senza che ci sia bisogno di menzionarle a ogni piè sospinto, come accade nei vari catechismi?

Non era certo il ruolo di tecnico laico della comunicazione quello che piú si confaceva a Padre Taddei, ruolo che chiunque avrebbe potuto ricoprire senza vestire l’abito di Sant’Ignazio! E come avrebbe potuto tener fede al dovere di operare per la «maggior gloria di Dio» se si fosse fermato al livello del perfetto semiologo, al livello del sapere accademico o anche a quello del buon scienziato che conquista la fiducia dei suoi discepoli con retta coscienza pedagogica e rigore di indagine?

Se non avesse sentito il bisogno di convincere, di convertire, di arrivare a quel livello del cosiddetto «comportamento adeguato» che sta al quarto grado degli effetti prodotti dalla comunicazione intellettiva, il suo sarebbe stato solo un onesto lavoro di applicazione specialistica alla semiologia dell’immagine.

E perché arrivare a ottenere un «comportamento adeguato» a seguito della formazione sulla lettura strutturale, se non in funzione di una inculturazione dei valori evangelici nel pieno della civiltà tecnologica?

Avrebbe potuto, come hanno fatto tanti, anche nel mondo dei religiosi, inveire contro il potere dei media e i loro padroni. Sicuramente avrebbe avuto piú blandizie e piú spazio sui media stessi, se avesse imbracciato il fucile del rivoluzionario mediatico, che per distruggere il nemico non lesina in accuse e fa della comunicazione di massa un’arma micidiale. Invece no! Taddei ha praticato la strada piú difficile: quella del dotare ciascuno degli strumenti critici della conoscenza e di lasciare a ognuno la responsabilità di esercitare il libero arbitrio nell’operazione d’indagine obiettiva sul significato dei messaggi per immagine.

Anche la distinzione tra Metodologia e Metodica, cosí importante in Taddei, rappresenta le due facce di un sapere, che per raggiungere il proprio obiettivo si applica concretamente a un testo filmico, attraverso passi concatenati e gerarchizzati, ma che viene guidato da riferimenti di valore scientifico e rispondenti a principi di criterio indiscutibili. Deduzione e induzione vanno perciò di conserva nella via tracciata da Taddei come in ogni buon percorso scientifico, dove i risultati si ottengono attraverso un’alternanza d’ipotesi teoriche e di una ricerca di conferme nella pratica sperimentale.

È evidente che tutto questo non si accorda con le consuetudini culturali e con gli intendimenti di quanti ritengono che la cultura, l’interpretazione storica, e perfino la dimensione politica debbano avere un’unica faccia. Oppure di quanti hanno contribuito a costruire un sistema di consenso dove interpretazione ufficiale dei fatti e versione critica debbono essere ugualmente stabiliti da chi detiene il potere di diffondere tra le masse la versione «giusta» dell’informazione e, comunque, del sapere. In questo caso la ben nota «dittatura del relativismo» rappresenta proprio l’atteggiamento egemone nel campo della mentalità e del comportamento, favorito dai media.

Perdere consenso, oggi, vuol dire perdere potere e chiunque o qualunque visione della educazione, come quella di Taddei, si metta di traverso nello svelare, attraverso la diagnosi delle cosiddette comunicazioni inavvertite, quali siano nella comunicazione i fondamenti del potere, crea un serio ostacolo. Meglio dunque ignorarla sul piano scientifico, perché non acquisti a sua volta potere e non metta in pericolo l’egemonia.

Di potere, infatti, si parla copertamente, ma sistematicamente in tutto lo sviluppo della metodologia taddeiana. Anzi potremmo dire, in attesa di dedicarvi uno studio piú dettagliato, che la metodologia aiuta a scoprire «di che lacrime grondi e di che sangue» il potere che si fonda sulla comunicazione massmediale e non.

 

In conclusione… il potere.

Quando parliamo di potere ci riferiamo non solo a quanto Taddei ha sempre sostenuto nel suo progetto di Ecologia mentale circa il dominio delle multinazionali in fatto di controllo delle materie di prima necessità (energia, acqua, alimenti, ecc.) e circa i meccanismi supportati dai media, ma, soprattutto, alla natura intima del potere che risiede naturaliter nell’atto stesso del comunicare13.

Nel meccanismo della comunicazione, cosí come è stato studiato e presentato, è insito un aspetto che nessuno, tranne Taddei, s’è preoccupato di far comprendere e circa il quale solo la metodologia della lettura strutturale offre strumenti rivelatori e di controllo.

Per quanto della comunicazione intellettiva si dica che essa è ciclica e che alternativamente favorisce lo scambio dei ruoli tra Comunicante e Recettore, se si prende in considerazione un segmento alla volta (r-C-S-R) e si considera che il Recettore non giungerà alla conoscenza della realtà da cui parte il Comunicante, ma alla idea della realtà che esso si è fatta, si può pervenire a una conclusione. Si può scoprire che anche il processo di lettura dell’idea porta a far sí che, piú è approfondita e precisa l’appropriazione da parte del Recettore del contenuto mentale del Comunicante, piú è evidente che il potere che il Comunicante esercita sul Recettore, nel momento in cui ci si adopera per comprendere bene la sua idea, diviene sempre piú chiaro.

Infatti, è la condizione stessa del comunicare che stabilisce ruoli non alla pari tra Comunicante e Recettore, perché tra i due viene a stabilirsi un implicito ricorso alla competitività. L’uno (il Comunicante), infatti, deve competere con il Recettore per farsi capire, sia nel caso che intenda rispettare un rapporto di verità con l’idea della cosa conosciuta, sia nel caso che intenda nascondere – e quindi mentire – il suo reale obiettivo. Il secondo (il Recettore), dal canto suo, non può che sforzarsi di cogliere tutte le sfumature (i C2) utilizzati dal Comunicante per trarre poi le sue conclusioni sul significato di ciò che gli viene sottoposto. Sotto il profilo funzionale, diventa, allora, significativo il fatto che ogni atto comunicativo induce, comunque, (quando vi sia, nei due attori, quella disponibilità psicologica attiva e passiva che è una delle quattro pre-condizioni riconosciute da Taddei) un atteggiamento comportamentale del Recettore, che accetta o meno il contenuto o il valore di quanto il Comunicante gli sta proponendo. Non è questo, però, un aspetto solamente psicologico, ma è, di per se stesso, un elemento strutturale dovuto alla natura funzionale insita nello scopo stesso della comunicazione.

Taddei non fa esplicita menzione di questo meccanismo, perché non è nelle sue intenzioni aprire una porta su ciò che facilmente potrebbe essere scambiato per una conseguenza psicologica, ma se si è capaci di leggere la natura profonda della metodologia e si conosce quanto ha tracciato nelle sue opere sulla predicazione, non si può non giungere ad apprezzare e a valorizzare la grande intuizione e la grande onestà intellettuale del pensatore che, di fronte al fenomeno della comunicazione, non fa sconti a nessuno e non cede all’ipocrisia che mimetizza la verità, ma si richiama solo a quei modelli che difficilmente potrebbero essere ripudiati in chiave religiosa: le modalità comunicative evangeliche e il paradigma pedagogico ignaziano.

A che pro, infatti, si comunicherebbe se non per ottenere un adeguamento del Recettore alla esplicita o implicita richiesta del Comunicante? Se non fosse per ottenere una qualche forma di consenso e di «metànoia» (conversione), tutto si risolverebbe in una circolazione di segni vuota e senza scopo e cadrebbe perfino quella strategia dell’apostolato che è alla base della missione ignaziana e della predicazione cristiana stessa.

Dunque, comunicare vuol dire anche esercitare, in senso buono, un qualche potere su chi riceve il messaggio, a prescindere dal fatto che poi, questi, accetti o no il contenuto di tale messaggio. Solo il fatto di rivestire il ruolo di comunicante (e i media con quale forza lo fanno!) basta a conferire una posizione di dominanza su chi può esercitarlo in seconda battuta (nella comunicazione ciclica) o solo nel privato (come nel caso della soggezione a un’emittente massmediale).

Ma anche nei rapporti interpersonali, il concetto che nella comunicazione ciclica gli attori siano alla pari e che in una dimensione dialogica si costruisca un rapporto dialettico che conduce inevitabilmente a far sí che i risultati di un incontro tra comunicanti sia un compromesso di posizioni, composto da un mix di idee dell’uno e di idee dell’altro, è solo una conquista delle regole della diplomazia che vigono, nelle buone maniere, anche a livello di comportamento psicologico individuale.

Nella sostanza del fenomeno comunicativo, invece, tanto nella fase dei rapporti individuali, quanto a maggior ragione in quello dei rapporti massmediali, si ritrovano sempre, in fin dei conti, un «vincente» e un «perdente», tutte le volte che un messaggio va a buon fine, cioè tutte le volte che viene perfettamente compreso e che dà origine a quel «comportamento adeguato» di cui si è parlato.

Resta inteso, quando parliamo di «potere», di «vincente» e «perdente», che ci troviamo nell’ambito di una condizione antropologica e non di condizionamento psicologico, perché resta fermo, nella corretta comunicazione, lo status di libero arbitrio del Recettore che è padrone di esercitare tutto il potere della sua volontà. Da tutto ciò si comprende bene quale delicatezza e responsabilità rivesta il ruolo del buon comunicatore che non deve coartare la volontà altrui pur facendosi capire. In un certo senso quel potere di cui abbiamo detto nella buona comunicazione è anche un potere autolimitante che il Comunicante esercita nei confronti di se stesso.

Addestrare quindi, come fa la metodologia di Taddei, a comprendere bene i messaggi, vuol dire addestrare, nella Educazione A l’immagine, dei Recettori che sono in grado di riconoscere i livelli del potere del Comunicante. E, nel caso della Educazione CON l’immagine, vuol dire addestrare dei Comunicanti che siano capaci di esercitare un potere di convincimento che, anche se rifugge dal condizionamento, vuole ottenere, però, quel «comportamento adeguato» che il Recettore deve mettere in opera.

Tutto il pensiero sulla pastorale dell’immagine di Taddei punta a questi risultati e la ragione per cui lo scienziato e il sacerdote vi hanno insistito particolarmente è che, in ambito religioso, non si è fatto nessuno sforzo per adeguare la predicazione e la formazione delle coscienze ai tempi plasmati dagli influssi dei nuovi linguaggi, al punto che gli appelli della Redemptoris missio e quelli attuali di Benedetto XVI sono rimasti quasi lettera morta.

Di fronte a tutto questo è comprensibile, anche se profondamente sconfortante, che gli avversari del pensiero religioso, anziché usare argomenti scientifici di confronto, abbiano temuto e passato sotto silenzio una metodologia che puntava alla formazione e al proselitismo e che sottraeva consensi e intelligenze a una versione materialista e soggettivista della analisi dei testi filmici e soprattutto dei fenomeni storici e umani a cui tale analisi può facilmente essere applicata. Ma, ancor piú spiacevole è la tepidezza, quando non la resistenza, che, all’interno del mondo cattolico, la metodologia ha incontrato.

Non valorizzando adeguatamente questa metodologia formativa, questo mondo si è privato di uno strumento privilegiato per la buona organizzazione del pensiero in grado di affrontare le sfide proposte proprio dall’imperante relativismo e dal crollo dell’etica.

Chi, d’altra parte, consapevolmente o inconsapevolmente, ha creduto di vedere nella metodologia solo un aiuto puramente tecnico, per scomporre in modo comprensibile una vicenda filmica, ha anch’egli operato in modo riduttivo.

Infatti, riducendo la metodologia quasi a metodica (tecnica) della lettura del film, che si ferma sull’orlo dell’approfondimento sui valori e disvalori che un’opera porta con sé, senza insistere particolarmente sul fatto che il film è, prima di tutto, finzione circa storie individuali o collettive, non ha reso un buon servizio allo spirito che anima la ricerca taddeiana e ne ha, indubbiamente, assottigliato lo spessore. Resta a sua discolpa l’attenuante di aver pensato, come molti, che fermarsi all’insegnamento di un metodo, a torto ritenuto asettico e neutro, non presenta rischi e che il metodo stesso esista in astratto a prescindere dai contenuti. Credere ciò, però, vuol dire credere che adottare un metodo non implichi scelte, quindi non implichi l’etica, che si preferisce pensare risieda solo nel campo della valutazione dei contenuti. Peccato che proprio il maestro della separazione del metodo dalla morale sia stato un certo Machiavelli, la cui pessimistica teoria dell’operare umano è proprio di notevole sostegno a quel relativismo, che oggi si sente tanto bisogno di combattere!

Se quanto fin qui detto, dunque, appartiene di pieno diritto all’insieme del pensiero di Padre Taddei e alla funzione che esso ha assunto nel panorama della cultura che va dagli anni sessanta ai giorni nostri, non sarà difficile guardarsi intorno e dare una risposta definitiva a quella domanda su chi ha paura della metodologia. Ancor meno difficile, però, se si avvertirà tutto il potenziale dell’impianto metodologico, sarà adottare lo spirito e le motivazioni di tale opera educativa per portare, negli attuali drammatici frangenti, un contributo determinante a quel disegno di rafforzamento della autentica libertà di pensiero, che tanto dovrebbe stare a cuore a chi si propone la formazione di una società piú giusta come a chi si sente chiamato a operare per la salvezza spirituale dell’uomo.

 
NOTE

1 Si tratta di Pierluigi Battista, editorialista de Il Corriere della Sera e già vicedirettore di esso.

2 Monese A.: «Il compromesso culturale», L’opinione, 15/4/2004.

3 Cfr. Grosser H.: Narrativa, Principato, Torino, 1985, pagg. 82,83.

4 Cfr. Caforio A., Ferilli A.: Physica, Le Monnier, Firenze, 1989, vol. 3°, pag. 351.

5 Schilpp P.A.: Albert Einstein scienziato e filosofo, Einaudi, Torino, 1958.

6 Jordan P., Fisica del secolo XX, Sansoni, Firenze, 1940.

7 Secondo la formula pessimistica sulla conoscenza data da Eco a conclusione del suo Il nome della rosa.

8 Caforio A., Ferilli A.: Physica cit., pag. 287.

9 S. Ignazio di Loyola: Esercizi spirituali, «Perché non è il molto sapere che sazia l’anima, ma il conoscere le cose intimamente».

10 Bohr N.: Teorie dell’atomo e conoscenza umana, Boringhieri, Torino, 1961.

11 Revel J. F.: El conocimiento inútil, Barcelona, Planeta, 1989, pag. 144.

12 Purtroppo abbiamo dovuto costatare personalmente che all’impianto della Educazione A e Con l’immagine è stato riservato talvolta un giudizio sprezzante, senza una reale motivazione scientifica, che ha definito la metodologia come presuntuosa e provinciale. Cfr. Cremonini G.: «Conoscere gli audiovisivi – L’attività del Gruppo Cinema dell’IRPA – Regione Emilia Romagna» in atti del Convegno Conoscere con gli audiovisivi, Esperienze, Problemi, Prospettive, Assessorato alle attività culturali – politiche per l’Università, Bologna 1989, pag. 184.

13 Cfr. Fagioli A.: Un gesuita avanti, Edav, Roma, 2000, pagg. 101-107.

 


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