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FAUST



Regia: Aleksandr Sokurov
Lettura del film di: Andrea Fagioli
Titolo del film: FAUST
Titolo originale: FAUST
Cast: regia: Aleksandr Sokurov ญ– sogg.: Yuri Arabov, dalla tragedia Faust di Johann Wolfgang von Goethe – scenegg.: Aleksandr Sokurov, Marina Koreneva – fotogr.: Bruno Delbonnel – mont.: J๖rg Hauschild – scenogr.: Elena Zhukova – mus.: Audrey Sigle – cost.: Lidia Krukova – trucco: Tamara Frid – interpr. princ.: Johannes Zeiler (Faust), Anton Adasinskiy (Usuraio), Isolda Dychauk (Margarete), Georg Friedrich (Wagner), Hanna Schygulla (Moglie Usuraio), Antje Lewald (Madre di Margarete), Florian Bruckner (Valentin), Maxim Mehmet (Amico di Valentin), Sigurdur Skulasson (Padre di Faust) – durata: 134’ – colore – produz.: Andrey Sigle per Proline Film – origine: Russia, 2011 – distribuz.: Archibald Film
Sceneggiatura: Aleksandr Sokurov, Marina Koreneva
Nazione: RUSSIA
Anno: 2011
Presentato: 68. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 2011 – Concorso
Premi: LEONE D'ORO per il miglior film – Premio Signis – Future Film Festival Digital Award

La parte finale della tetralogia MOLOCH – TAURUS – IL SOLE

La storia o mito di Faust che vende l’anima al diavolo per sete di conoscenza e potere è nota a tutti e risale al Cinquecento. Un po’ meno noto, nel senso che è sicuramente meno letto e conosciuto di quanto si dica, è il «Faust» di Johann Wolfgang Goethe, autore tedesco, uno dei più grandi nella storia della letteratura, nato a Francoforte sul Meno nel 1749 e morto a Weimar nel 1832, che si ispirò a quel mito scrivendo l’opera della sua vita: dai primi frammenti, che risalgono al 1772 (Goethe aveva appena 23 anni) al termine della seconda definitiva stesura (1831, poco prima della morte) passarono sessant’anni in cui si susseguono varie versioni

Il regista russo Aleksandr Sokurov, che con FAUST ha vinto il Leone d’oro a Venezia, dice che il suo film non è un adattamento della tragedia di Goethe nel senso tradizionale, ma una lettura di ciò che rimane tra le righe. «FAUST – spiega Sokurov – è l’ultima parte di una tetralogia cinematografica sulla natura del potere. I personaggi principali dei primi tre film erano tutti figure storiche reali: Adolf Hitler (MOLOKH, 1999), Vladimir Lenin (TELEC, 2000) e l’Imperatore Hirohito (SOLNZTE, 2005). L’immagine simbolica di Faust completa questa serie di grandi giocatori d’azzardo che hanno perso le più importanti scommesse della loro vita. Faust sembra non appartenere a questa galleria di ritratti, un personaggio letterario quasi da museo incorniciato in una trama semplice. Che cos’ha in comune con queste figure reali che sono ascese all’apice del potere? Un amore per parole cui è facile credere e una patologica infelicità nella vita quotidiana. Il Male è riproducibile, e Goethe ne ha formulato l’essenza: “Gli infelici sono pericolosi”».

Il film inizia di fatto con l’immagine di un corpo umano maschile. Il primo piano è proprio sull’organo sessuale. L’inquadratura si allarga e vediamo che è in corso l’autopsia su un cadavere. A farla è il dottor Faust con un suo aiutante. Le immagini sono decisamente forti. Faust tira fuori dal cadavere l’intestino per cercare altro all’interno del corpo dell’uomo morto. Il dialogo è serrato, sovrapposto, grottesco, ironico, ma fortemente letterario. Difficile da seguire. In qualche modo sembra addirittura spersonalizzare i protagonisti dando anche l’idea del caos e della mancanza di punti di riferimento che regnano nel mondo di Faust, uomo insoddisfatto, che non trova all’interno del corpo umano quello che vorrebbe, forse l’anima. Lo studio medico assomiglia più a una stanza delle torture. Faust ha studiato (filosofia, giurisprudenza, medicina e anche teologia), eppure adesso si domanda a cosa è servito. Si sente un povero illuso, uno scienziato insoddisfatto dei limiti del sapere umano. Ecco allora la ricerca di altre vie, di qualcuno che lo può accompagnare in un viaggio alla conquista degli oggetti del desiderio siano essi il denaro, la conoscenza, il potere o anche solo una donna. Da qui il sodalizio con il compare aguzzino: il diavolo, Mefistofele, al quale però Faust venderà l’anima soltanto verso la fine del film.

Il diavolo ci viene presentato subito come un individuo fisicamente deforme (lo vediamo nella sua orrenda nudità inseguire e minacciare giovani ragazze ai bagni pubblici), un essere abnorme dal fare viscido e infingardo, profanatore di luoghi sacri, iconoclasta. Eppure, questo personaggio così sgradevole, sembra essere l’unico capace di condividere i pensieri, i dubbi e le tensioni del protagonista sull’esistenza, sul creato e su Dio, e di trasmettergli il potere che ha sempre bramato.

Lo schermo è quadrato, più piccolo del solito, non è rettangolare. Ovviamente è una scelta in funzione espressiva per renderlo più simile proprio ad un quadro. Il colore è un virato verdastro. L’atmosfera è lugubre. Soprattutto nella prima parte. Spesso l’immagine è deformata grazie a filtri e lenti particolari. Gli spazi sono angusti e claustrofobici, le persone sembrano spesso ammassi umani. La macchina da presa coglie immagini di sporcizia con una sensazione di disfacimento, insegue i personaggi con ferocia andando a cogliere gli aspetti più sgradevoli. Non c’è respiro per lo spettatore. Nel mondo di Faust e Mefistofele sembra non esserci spazio per la speranza. Per gran parte del film li vediamo in viaggio insieme, finché non avviene l’incontro con Margherita, la donna di cui Faust s’innamora. E se dunque un patto con il diavolo deve essere fatto, non è più per la conoscenza ma semplicemente per avere la certezza di possedere una donna. Tra la morte e il disfacimento spunta dunque Margherita, che turba i sensi dell’inquieto dottore che con lei vorrebbe fermare l’attimo di piacere. In questa seconda parte aumenta anche la luminosità dell’immagine. Tutto è più chiaro, meno lugubre dell’inizio.

L’ultima parte del film è invece una sorta di rappresentazione dell’inferno con crateri di acqua che esplodono in continuazione e i morti che tornano a tormentare il protagonista, che forse si illude di poter dominare anche quel mondo con la presunzione di poter prescindere, nella sua ormai cieca brama di potere, anche dall’accordo siglato con Mefistofele. Ma non c’è possibilità di salvezza.

Il Faust di Sokurov è un uomo che si ribella ai limiti della natura umana, è assetato di conoscenza e di potere e si agita in luoghi angusti dove sembra non esserci spazio per la sua ambizione. Faust è un uomo cosciente che niente al mondo lo sazierà (tanto da fare un patto con il diavolo anche solo per fermare l’attimo con Margherita), è un uomo inquieto, che nel suo errare tra ghiacciai, boschi e lande desolate sembra rappresentare almeno una parte del­la condizione umana, quella che spingendosi oltre i limiti finisce per perdersi: l’ambizione e la bramosia di potere si trasformano in perversioni umane che conducono al vuoto, al nulla. E questa potrebbe anche essere l’idea centrale di un film particolarmente complesso, che dura quasi due ore e mezzo e che non può essere letto correttamente dopo una sola visione.

Il dialogo, come detto, fortemente letterario e serrato, oltre alla complessità del film, impone un’altra o più visioni in lingua italiana (sempre che esca nelle nostre sale) considerato che a Venezia è stato giustamente presentato nella versione originale in tedesco (la lingua di Goethe) con sottotitoli piuttosto difficili da seguire. In ogni caso sarà una visione impegnativa e sicuramente poco accessibile al grande pubblico.

P.S. Quello di Aleksandr Sokurov, come accennato, non è un adattamento della tragedia di Goethe, ma per capire quanto bene abbia colto, diciamo così, l’atmosfera del capolavoro tedesco basta leggere la cosiddetta «Dedica» all’inizio dell’opera e confrontarla con le ambientazioni e le suggestioni del film: «Vi avvicinate ancora, ondeggianti figure apparse in gioventù allo sguardo offuscato. Tenterò questa volta di non farvi svanire? Sento ancora il mio cuore incline a quegli errori? Voi m’incalzate! E sia, vi lascerò salire accanto a me dal velo di nebbia e di vapori; aleggia intorno a voi un alito incantato che al mio petto dà un fremito di nuova gioventù. Voi recate le immagini di giorni spensierati, ed affiorano ombre che mi furono care; simili ad un’antica, quasi svanita saga ritornano con voi gli amici e i primi amori; si rinnova il dolore, il pianto ripercorre il corso labirintico di una vita errabonda, e nomina i magnanimi prima di me scomparsi, frodati dalla sorte di belle ore felici. Non potranno ascoltare i canti che verranno le anime alle quali i miei primi cantai; la ressa degli amici si è dileguata, ormai, l’eco prima dei canti è, purtroppo, svanita. La mia canzone suona ad una folla ignota, che perfino se applaude fa tremare il mio cuore, e chi allora ascoltava lieto la mia canzone erra, se vive ancora, disperso per il mondo. Ed una nostalgia da tempo sconosciuta mi prende di quel grave, calmo regno di spiriti, si libra adesso in indistinti suoni sussurrando il mio canto, simile all’arpa eolia, un brivido mi afferra, lacrima segue lacrima, si sente molle e tenero questo cuore severo; quel che adesso possiedo lo vedo da lontano, e quello che svanì diventa reale e vero».

 

 


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