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Fish Tank



Regia: Andrea Arnold
Lettura del film di: Adelio Cola
Edav N: - 2010
Titolo del film: FISH TANK
Titolo originale: FISH TANK
Cast: Regia e scenegg.: Andrea Arnold – fotogr.: Robbie Ryan – mont.: Nicolas Caudeurge – scenogr.: Helen Scott – costumi: Jane Petrie – interpr.: Katie Jarvis (Mia), Michael Fassbender (Connor), Kierston Wareing (Joanne), Rebecca Griffiths (Tyler), Harry Treadaway (Billy), Jason Maza (Liam)Sidney Mary Nash (Keira), Charlotte Collins (Sophie)– colore – durata: 124’ – produz.: BBC Films, UK Film Council, Limelight, Kasander Film Company – origine: GRAN BRETAGNA, OLANDA, 2009 – distrib.: Onemovie (23.07.2010)
Sceneggiatura: Andrea Arnold
Nazione: GRAN BRETAGNA, OLANDA
Anno: 2010
Presentato: 62. FESTIVAL DI CANNES (2009) - In concorso
Premi: PREMIO DELLA GIURIA (EX-AEQUO) AL 62.FESTIVAL DI CANNES (2009)

Il titolo potrebbe fare riferimento alla pesca a mani vuote (!) d’un grosso pesce, catturato dall’amante della madre della protagonista in compagnia della medesima, e poi finito sanguinolente in bocca al gatto di casa.

Iniziamo dall’ultima inquadratura: sullo sfondo di palazzi (si può pensare a qualsiasi città odierna!) e del cielo senza nubi vola, trasportato dal vento che soffia da destra a sinistra, una specie di palloncino che sparisce fuori dallo schermo. È un chiaro simbolo della protagonista. E a proposito di simboli, è lei stessa che tenta inutilmente di liberare la cavalla ‘prigioniera’ della catena che la trattiene. Quando, non vedendola più, chiederà notizie di essa, le informeranno che è “malata”; ne rimarrà triste. E a proposito di sentimenti e reazioni, MIA, si chiama così, è tutt’altro che apatica e abulica. “Qual è il problema?”, le chiede con distacco e indifferenza la madre: “Il mio problema sei tu!”, è la pronta risposta della figlia che si rifugia in camera da letto sbattendo la porta . Neppure con la sorellina mantiene buoni rapporti, anche perché quest’ultima nella sua spontanea difesa la minaccia quando ne sta per combinare qualcuna delle sue e fugge di casa:”Lo dico alla mamma!” La abbraccerà però con convinzione, alla fine del film, prima di andarsene definitivamente con un coetaneo (che è riuscito a fare funzionare una vecchia automobile abbandonata), anzi la rimpiangerà guardandola dal finestrino posteriore mentre la piccolina la rincorre trattenendo il cane al guinzaglio. I due se ne vanno, il palloncino sparisce nel cielo: liberi e libero in balìa della sorte e del vento..
Il film è tutto su di lei, Mia. L’occhio della macchina da presa non l’abbandona un istante, le è sempre addosso con curiosità e interesse maniacale, come se non esistesse nient’altro al mondo che Mia. Casa, strada, città, campagna, pozzanghere, fiumi, cimitero di vetture sfasciate, traffico urbano: tutto nel film ha funzione soltanto di sfondo anonimo e cornice della protagonista. Strutturalmente il film si divide in due parti molto ben distinte: prima parte. Vita sconsolata, più che disperata, di Mia con le ripetute entrate e fughe dalla porta di casa, dove il padre non esiste e la madre, cordialmente disinteressata delle due figlie, passa il tempo allo specchio con la televisione sempre accesa, in attesa o in tenera compagnia d’un muscoloso giovane amante, che non lascia indifferente l’adolescente figlia della donna discinta e sensuale. Mia un giorno scopre i due in reciproche effusioni erotiche e ne resta turbata. Neppure il maturo (maturo, si fa per dire!) giovanotto rimane indifferente trovandosi spesso di fronte alla fresca ragazza.
Seconda parte: È ella medesima che lo cerca, che lo va ad incontrare nel posto di lavoro, che insiste  nel parlare con lui del più e del meno: almeno dialoga con qualcuno! È evidente il suo bisogno di protezione, di sicurezza, di affetto paterno. Si prevede che il maschio prima o poi… E Mia cede, non fa, lascia fare, quasi senza partecipazione. Dopo però continuerà a cercarlo. Desiderio, senso di inquietudine, attesa d’altro…La brava giovane interprete comunica emozioni e rari sentimenti con rarissime parole e misurati gesti e mimiche reazioni . Il rischio della recitazione è costantemente superato dalla attentissima regista, che non le lascia un attimo di ‘libertà’. Per raggiungere l’affermazione personale nella vita, delusa e dispettosamente disgustata dal rifiuto della compagnia dalle disinibite signorinelle coetatanee  che la schivano e la schifano (”che carattere!”), assiste alle esibizioni televisive, e in seguito allo spettacolo dal vivo, di giovani che ruotano per terra come trottole giranti e di ragazze cubiste che volteggiano in locali equivoci per soli uomini in compagnia di facili donnine. Si allena imitando i modelli e decide di presentarsi alla selezione delle candidate per un provino. Appena salita sul rotondo palchetto, ci ripensa e se va (“Che le ha preso?”). L’amico coetaneo intanto è riuscito a far funzionare la vecchia automobile depositata tra le fuori uso del cimitero. Mia può finalmente andarsene con lui per i fatti suoi, non sa dove e perché, via però da quella casa che costituiva il suo “problema”.
È troppo facile dire che il film mette in scena l’ennesimo caso di conflitto generazionale madre/figlia, esasperato dal fatto che le due s’innamorano dello stesso uomo. C’è tutta la problematica dell’ineducazione materna a monte dell’intolleranza reciproca dell’una per l’altra. C’è il malesempio licenzioso per nulla dissimulato (ricordate l’antico laico consiglio: “Si non caste, saltem caute!”), insomma la vita scandalosa della madre, esibita come se niente fosse, anzi con disinvoltura, a due figlie trattate come sgradite ospiti domestiche. È vero che Mia si comporta con maleducazione, reagendo con logica reazione alla maleducazione materna, che la tratta come…le cattive sorelle trattavano la Cenerentola della fiaba. Chissà se la nuova protagonista della storia troverà nel futuro chi la ‘libererà’, come lei sogna illudendo se stessa! Questo potrebbe essere il sequel del film. Il nostro non va più in là: la ‘cavalla malata’ per il momento s’è liberata!

C’è una lunga sequenze ‘forzata’ nel lungo film: il rapimento della bimba-angelo (vedi com’è agghindata!) che mentre gioca con il monopattino, viene invitata da Mia (che casualmente la scopre essere figlia dell’amante della madre, oltre che… ‘suo’!) d‘andare con lei “a prendere un gelato con il permesso della mamma!”. Lungo percorso tra le sterpaglie, arrivo al fiume, caduta nella corrente e fortunosa salvezza della bimba, quasi malvolentieri aiutata a tornare a riva da parte della rapitrice, che s’è voluta vendicare con un gesto insano del maschio che ha ‘conosciuto’. La lunga prolissa sequenza non trova sufficiente giustificazione nella struttura drammatica del film, se non quella di portare nuovo argomento (esasperato!) sulla cattiveria del “carattere” insolente, insofferente, vendicativo di quel maschiaccio di Mia, selvaggio essere parolacciaio imprevedibile nelle sue reazioni istintive.
Troppo facile sarebbe elencare a questo punto film simili per argomenti e tematiche adolescenziali. Una domanda piuttosto s’impone: perché la sceneggiatrice regista ha diretto questo film? Il contesto sembrerebbe animato da denuncia e condanna di certi regimi di vita famigliare. In realtà non è così, perché le connotazioni filmiche, i contorni due, sono talmente evidenziati nel documentare le reazioni della protagonista, da non riuscire a vivere, diciamo così, in funzione d’una tesi da provare o d’una problematica da proporre. Il film è chiaro esempio di nobile interesse per una situazione di disagio, a dir poco, esistenziale d’una adolescente; è disegnato e spesso addirittura scolpito con mano esperta dall’autrice, anche con misurato riserbo e rispetto nei riguardi degli interpreti (quasi sempre!) e degli spettatori; evitando di sfruttare le numerose occasioni che si sarebbero prestate alla spettacolarizzazione, anche pruriginosa, di circostanze che la sceneggiatura indirettamente offriva; recitato sotto sapiente direzione registica; convenientemente supportato da scenografia e colonna sonora senza stridente contrasto con il contesto. Tutto bene, si direbbe. Eppure al sottoscritto sembra che il vero motivo che ha sostenuto l’autrice a dirigere il film sia stato quello, udite udite!, di allestire una professionale esercitazione registica, elaborando una materia non originale e, per di più, ‘povera’ di ‘cose’ e di ‘avvenimenti’, e perciò stesso difficile e meritoria, pur non sfuggendo al dubbio d’un giudizio ingeneroso di pseudo tematica a finalità spettacolare.
È LA STORIA DI MIA, figlia adolescente di madre unicamente preoccupata di se stessa e che vive in casa con un amante, del quale la figlia finirà per avere una cotta, quasi per compensarsi della mancanza d’affetto della madre, che la tratta come un’ospite sgradita, LA QUALE, sempre malcontenta, umiliata da tutti e solitaria, dopo aver tentato di emanciparsi sentimentalmente cercando il suo posto nella vita, alla fine S’ALLONTANA DEFINITIVAMENTE DA CASA in compagnia d’un coetaneo aspirando a vivere ‘senza tetto né legge’. (Adelio Cola)

 


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