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LETTERATURA E CINEMA: «LA PATENTE» DI PIRANDELLO E DI ZAMPA


di ADELIO COLA

La lettura strutturale del film: provare per credere.

Alla fine di corsi di esercitazioni di lettura strutturale per insegnanti mi è stato spesso rivolto il consiglio di far pubblicare su EDAV esempi pratici della medesima di testi letterari e di film “con tutti i passaggi”,

per esemplificare “in pratica COME SI FA”.

Alla mia risposta che esempi pratici sono stati già pubblicati, la controrisposta suonava pressappoco così: non devo illudermi che essi siano stati letti da tutti gli abbonati; conviene quindi presentarne altri ogni tanto perché “repetita juvant”.

“Abbiamo provato a fare come indicato dagli esempi riportati dalla rivista, mi confidano due giovani coniugi. Ora ci crediamo, non per argomento d’autorità ma per esperienza personale. Il metodo funziona!”

 Ecco il problema.

 Fu detto e insistito dal mio maestro, p. Nazareno Taddei, (+2006), che il protagonista d’un film si scopre osservando i cosiddetti “contorni due” del suo MODO di parlare, di agire e soprattutto di reagire a quello che succede a lui e attorno a lui.

Tanto per intenderci, almeno per coloro che non hanno avuto la buona sorte di conoscere il sunnominato padre gesuita e di frequentare i suoi corsi di studio, con il termine ‘contorni uno’ (C1) ci si riferisce alle qualità esterne e materiali d’un soggetto (persona, animale, cosa, evento…), ad esempio forma, colore, dimensioni, peso …, che ce lo fanno identificare come uomo animale pianta…

 “Contorni due” (C2)  invece chiamiamo le peculiarità e, se si tratta di persone, la psicologia, che lo distinguono dagli altri uomini, donne, animali, piante…

 L’importanza della distinzione tra C1 e C2 sarà oggetto delle prossime riflessioni.

 Divido il seguente studio in due parti, una teorica e l’altra pratica.

 
* * *
 

PARTE PRIMA con un punto di partenza… apparentemente ‘banale’:

La distinzione tra C1 e C2.
 
La distinzione tra C1 e C2 si fonda, ripeto come punto imprescindibile di partenza, sulla diversa attenzione che il lettore e l’osservatore pongono sul fatto che l’oggetto conosciuto è quello che è così come appare con le sue particolarità individuali. Esse non si possono separare materialmente (da una parte i C1 e dall’altra i C2): l’operazione, la divisione sono operazioni mentali. 

 Antonio, ad esempio, e Antonietta, sono due persone umane, lui un uomo, lei una donna: se mi fermo a questo livello di osservazione e di conoscenza, Antonio e Antonietta sono per me come tutte le persone che hanno i medesimi nomi.

Che cosa distingue gli uni dagli altri e le une dalle altre? Le qualità esteriori ed interiori personali, diverse le une dalle altre. Non esiste un Antonio ‘identico’ ad un altro ed una Antonietta perfettamente clone d’un’altra, non soltanto fisicamente ma sotto qualunque altro aspetto e livello, intellettuale, morale, sentimentale, culturale in genere.

 Fino a quando osservo Antonio e dico che egli è un uomo e Antonietta definendola donna, parlo di lui e di lei limitandomi ad osservare e ad elencare i loro C1. Di loro come persone distinte da tutte le altre con i loro medesimi nomi non dico nulla.

-          Chi hai incontrato al mercato questa mattina?.

-          Ho incontrato Antonio.

-          Ma COME era Antonio questa mattina al mercato? (L’esempio del dialogo tra me e chi mi interroga vale anche, evidentemente, se si trattasse di Antonietta). Era allegro o triste, indaffarato come sempre o ‘disteso’, da solo o in compagnia…?

Soltanto rispondendo obiettivamente a simili domande, io comunico qualche cosa di personale di Antonio (o di Antonietta).

Il passaggio dai C1 ai C2 corrisponde a quanto la carta d’identità documenta di Antonio o di Antonietta: foto, data e luogo di nascita, colore degli occhi e dei capelli, segni particolari, impronte (se la legge lo esige) dei polpastrelli delle dita. Insomma le cosiddette generalità; sono i connotati, quelli che il vigile stradale, ad esempio, che ferma un automobilista per controllare i documenti di viaggio vuole vedere, per assicurarsi del rispetto del codice della strada da parte dell’automobilista. Essi si potrebbero anche chiamare con termine di estrazione letteraria le ‘connotazioni’.

Le ‘denotazioni’ non sono sufficienti ad individuare l’automobilista.

 

Quanto detto fino a questo punto è accettato da tutti, data l’evidenza del contenuto delle affermazioni.

 Il problema inizia quando si parla, non di denotazioni e connotazioni, ma di C1 e C2 in ambiti diversi, eppure a tutti familiari, quale quello della comunicazione attraverso le immagini. E mi spiego.

 Se io osservo un’immagine qualsiasi e di qualunque natura (immagine allo specchio, dipinta, fotografata, musicale…), devo distinguere in ogni caso C1 e C2. Se non piace il termine ‘contorni’, usiamone pure un altro, ad esempio qualità o aspetti particolari. L’importante è non confondere le due facce, non d’una medaglia, ma d’un oggetto, persona, evento.

 Come detto sopra, la distinzione è soltanto operazione mentale dell’osservatore. L’oggetto rimane quello che è senza esibire prima i suoi C1, in forza dei quali l’osservatore dichiara di vedere e di conoscere un uomo o una donna, un campanile o una torre, un negozio o un’osteria …e poi i suoi C2.

 Se egli aspetta che la persona o l’oggetto conosciuto gli dichiari i C2 che lo distinguono da tutti gli uomini, le donne, i campanili, le osterie esistenti…, egli rimarrà deluso!

 Dev’essere lui ad interrogare indirettamente l’oggetto osservandolo con attenzione: - COME sei fatto? Qual è il tuo MODO particolare di essere?-  

 Le risposte, che egli stesso deve trovare, gli consentono di individuare i C2 della realtà.

 

 Ma perché, si chiederà, questa l’insistenza sulla necessità di distinguere C1 e C2?

 Perché, insegnava p. Taddei, altrimenti si prendono fischi per fiaschi. Il negativo effetto si può verificare anche nella normale comunicazione tra persone.

 Si può dialogare con parole, a voce diretta o per telefono; eccezionalmente per radio, perché è vero che l’ascoltatore comunica con chi parla al microfono ascoltando la radio, ma di solito non può rispondere e dialogare …’a ping pong’! La comunicazione radiofonica è di sua natura autoritaria: è raro il caso che l’ascoltatore possa confrontare le sue opinioni direttamente con lo speaker che parla.

 Qualche cosa di simile succede quando noi ammiriamo un’opera d’arte (un quadro, un monumento, ascoltiamo una composizione musicale, assistiamo alla proiezione d’un film…): noi non possiamo dialogare immediatamente e normalmente con l’autore! Il dialogo rimane per così dire, sospeso, o meglio unidirezionale.

 Quando, ad esempio, il regista ‘ha detto’ (meglio: ‘ha espresso’) le sue idee, ha dato vita, cioè, al suo film od alla sua trasmissione televisiva, quello che voleva dire l’ha detto.

 Il destinatario, spettatore o teleutente, non ha la possibilità, di solito, di intervenire per dire la sua e stabilire così dialogo e confronto con l’autore dell’opera vista ed ascoltata. Anche se potesse, il peso d’importanza spettacolare del contenuto interiore del regista sarebbe molto superiore per suggestione a quello che lo spettatore potrebbe esporre per confrontarsi con lui! Egli però non dovrebbe rinunciare a ‘dire la sua’ (a confrontare, cioè, il suo contenuto interiore con quello del regista!), almeno per non accettare acriticamente le idee dell’autore dello spettacolo.

Tale argomento è stato affrontato più volte da EDAV con il consiglio della lettura strutturale.

 Dialogo, torniamo a noi, è passaggio di idee e sentimenti di chi parla a chi ascolta e reciprocamente dal secondo al primo.

 Naturalmente il dialogo funziona se esistono le condizioni normali (a livello normale, non specialistico), tra i soggetti dialoganti. Se l’argomento non è alla portata di chi ascolta, chi parla adopera una lingua sconosciuta all’ascoltatore. Se quest’ultimo non ha intenzione, attenzione ed interesse nei riguardi di quanto il proponente espone, il dialogo non può funzionare per mancanza di condizioni soggettive o, altre volte, di strumenti previi al dialogo.

 - Che cosa ha detto il regista del film che hai visto? Che cosa ha detto l’autore della trasmissione televisiva alla quale hai assistito?…”

 Se chi risponde a tali domande si limita a riferire i contenuti, anche in modo obiettivo (e quindi non deformati o adulterati a causa di falsa lettura e comprensione o di deliberata volontà di contraffazione), del film e della trasmissione televisiva ricordando puntualmente soltanto i cosiddetti C1, significa che il dialogo tra lui e l’autore del film e della trasmissione non c‘è stato. Per conseguenza l’ex spettatore girerà, non attorno alle idee e sentimenti espressi dal regista, ma alle idee e sentimenti suoi personali.

 La domanda allora dovrebbe essere un’altra: - Che impressione ti ha fatto il film o la televisione?- Anch’essa è legittima. Ma il film e la trasmissione televisiva non sono opere di comunicazione impressionistica, ma (nella migliore delle ipotesi!) di comunicazione.

 Gli autori del film e della TV non hanno affidato quello che effettivamente hanno espresso e comunicato agli spettatori affidando idee e sentimenti ai cosiddetti C1 audiovisivi ma ai relativi C2. Tutto al più lo spettatore del nostro caso riferisce bene o male quello che egli ha capito (o s’illude d’aver capito!), avendo visto e ascoltato le immagini visive e sonore del film e della trasmissione, ma non quanto i loro autori hanno effettivamente espresso per mezzo di dette immagini.

 Succede normalmente anche nella vita quotidiana che il vero senso e significato delle parole e dei gesti d’una persona mentre parla con un’altra (ecco il dialogo!) non stiano nelle parole e nei gesti pronunciati e bellamente esibiti, ma…

 In che cosa, dunque? Nell’insieme dei MODI che i dialoganti usano per scambiarsi pensieri e sentimenti.

 Baciare, ad esempio, non significa amare: anche Giuda sa baciare!

 Offrire un mazzo di fiori, non sempre ha significato di omaggio: anche la mafia offre fiori!

 Suonare la banda non è sempre segno di festa: c’è anche la marcia funebre!…

-          Ho sentito per strada una donna che dalla finestra diceva ‘Caterina’!-

-    Ma perché?                                                                                                                                          Se non viene riferito il MODO di dire (chiamare, gridare, implorare, gemere…) ‘Caterina’, chi ascolta colui che racconta d’aver sentito dire ‘Caterina’ non può capire il motivo di quel semplice verbo ‘dire’, che corrisponde soltanto ai C1.

 - Ho visto un giovane correre sulla strada-.

 Correre COME, PERCHÉ? Correva, scappava, inseguiva, accorreva…? Per sfuggire agli inseguitori o per raggiungere gli amici?…

 Il verbo ‘correre’ è C1 dell’azione del giovane: troppo poco per comprendere il motivo della sua corsa, evidentemente nel caso che chi l’ha visto correre ne conosca il motivo.

 Il senso di ogni comunicazione è, per così dire, contenuto, nascosto e velato sotto I MODI usati dal comunicante per raggiungere coloro ai quali egli si rivolge con la sue parole, opere, film, trasmissioni radiofoniche e televisive, internet, pubblicità e propaganda (anche soltanto stampate).

 
* * *

 Il lettore si è forse interrogato sulla ‘scivolata’ fatta da chi scrive partendo dal terreno della comune necessità di distinguere C1 e C2 nell’ampio campo della comunicazione umana e arrivando a quello specifico della comunicazione attraverso i mass media.

 La scivolata è stata volontaria e corrisponde alla scelta di intrattenere il lettore sul campo di riflessione, che di solito non viene convenientemente ‘esplorato’. Ne fa fede la statistica, che ognuno può raccogliere, chiedendo rispettosamente a tempo opportuno a spettatori amici e parenti di film e trasmissioni televisive: ‘Com’era il film o la trasmissione?’

 È probabile che si senta rispondere: -Interessante (che significa?…), bella, brutta, uno schifo, spazzatura…-

 PERCHÉ? Ecco la domanda test: da qui può cominciare la raccolta delle risposte alle domande riguardanti l’indagine della statistica ipotizzata. Non si tratta di sfruttare l’occasione per tacciare d’ignoranza gli intervistati; non è questo il motivo machiavellico che spinge a raccogliere argomenti come prove della verità d’una tesi. È, semmai, la conferma che nel dialogo, per ‘CAPIRE’ ciò che una persona (regista, ad esempio) dice con il suo film, è necessario stare attenti ai MODI di confezionamento della sua opera.

 S’è detto altre volte in EDAV che tale ricerca si fa percorrendo una certa strada, cioè applicando al film la LETTURA STRUTTURALE proposta da p. Taddei, dopo d’aver ‘scoperto’ il protagonista del film, osservando il suo MODO di comportarsi e di reagire di fronte a quanto succede nel film medesimo.

 Non è opportuno ripetere a questo punto una pur breve esposizione del metodo Taddei per la lettura del film, della trasmissione televisiva ed in genere delle comunicazioni attraverso le immagini.

 Uno strumento utile per mantenersi aggiornati sull’argomento è quello di partecipare alle iniziative del CiSCS (Centro internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale) da lui fondato, come ad esempio iscriversi ai corsi programmati e abbonarsi alla rivista EDAV, che dal 1972 divulga il suo insegnamento.

 

PARTE SECONDA con un punto d’arrivo…che si spera probante.

 

 Finora, conclude forse qualche lettore, è stato ‘menato il can nell’aia’, insistendo su ‘banalità’ di comune pacifico possesso, abbastanza superflue nella loro riproposta.

 Scendo, allora, dalle nuvole del ragionamento astratto e vengo con i piedi per terra.

 Voglio sperimentare quanto affermato nella prima parte applicandone il succo, per così dire, ad un film, ad un piccolo, anzi ad un breve film.

 Dal momento che l’esperimento è stato fatto più volte in corsi d’applicazione della metodologia Taddei           offerti a colleghi insegnanti, posso anticipare, non soltanto la loro soddisfazione finale costatando l’utilità della Lettura Strutturale del film, ma la gratificazione consistente nella…sorpresa conclusiva.

 Anticipo al film una breve lettura strutturale della novella dal quale il film desume la sceneggiatura. Sarà un utile esperimento confrontare novella e film omonimi.

 Chi intende partecipare, non dico ‘sottoporsi’, all’esperimento, farebbe bene anticipare la lettura della novella di Luigi Pirandello ‘LA PATENTE’.

 Se il lettore è insegnante di lettere, dopo la lettura della pagina del celebre autore agli studenti, concluderebbe probabilmente la lezione sintetizzando la novella più o meno con queste parole: - Si tratta del giudice D’Andrea, il quale, convinto e preoccupato di trovarsi di fronte ad un maniaco infatuato da superstiziose idee popolari, dopo avergli ripetutamente negato di prestarsi per istruirgli il processo che gli avrebbe dovuto concedere la patente di jettatore, da lui insistentemente richiesta come garanzia del suo lavoro per mantenere così la famiglia convincendo i suoi concittadini d’essere in grado di causare disgrazie e quindi facendosi pagare ‘la tassa della salute’, alla fine, stanco e impressionato dalla petulante insistenza del cliente , pur di toglierselo d’intorno, dimostra comprensione umana e quasi solidarietà al povero diavolo-.

 Dov’è qui la sorpresa? Non c’è. Tutto fila a dovere. C’è il GIUDICE PROTAGONISTA e, per così dire, l’antagonista che lo fa reagire. Normale che in una novella si rispetti la solita regola narratologica.

 Il fatto poi che ci sia da ricavare dalla storia del giudice D’Andrea la morale della favola, come da qualunque altra storia, è un aspetto sul quale non ci fermiamo per il momento.

 Non elenco le, (come le chiama qualcuno), microsequenze della novella: ognuna comprende qualche riga stampata.

 Ogni verbo ‘dinamico’ (dire, dare, fare…), anche prescindendo dai verbi, per così dire, ‘statici’ e dai numerosi descrittivi psicofisici, indica azioni e reazioni che espomgono parziali progressioni narrative. Ognuna, considerata nel contesto delle precedenti e seguenti, costituisce una ‘microsequenze’, che preferisco denominare con p. Taddei NUCLEO NARRATIVO (N.N.)

 I N.N. che riferiscono le azioni-reazioni del personaggio protagonista e quelli dell’antagonista che li provocano, permettono di dividere il racconto (nel nostro caso la novella) in DUE PARTI STRUTTURALI SEMIOLOGICHE.

 La raccolta dei pensieri-sentimenti-ideali che spingono ad agire i due personaggi (o i due gruppi di personaggi, come ad esempio in un racconto di guerra con i due eserciti combattenti), li possiamo chiamare PERNI STRUTTURALI (di natura narrativa o/e semiologica) (P.S.) (vedi p. Taddei).

 Il contenuto interiore dei P.S. permette di connotarli anche come FILONI (psicologia del protagonista e dell’antagonista).

 Le due parti strutturali semiologiche del racconto corrispondono di solito a tale osservazione.

 

 Ho usato il termine ‘racconto’ in quanto mi riferisco al MODO usato dall’autore nell’esporre la ‘vicenda’ della novella (è così anche per il film). Essa si riferisce all’insieme narrativo dei C1 e narra ciò che succede (risponde alla domanda: CHE COSA ho visto, che cosa ho ascoltato?), subordinatamente al ‘racconto’ che fissa l’attenzione sui C2 (COME è successo ciò che è successo?).

 La risposta alla prima domanda non permette al lettore della novella (e allo spettatore del film) di rendersi conto del motivo che ha determinato l’autore a comporre (a dirigere) la sua opera (l’IDEA CENTRALE), la causa, insomma, all’origine dell’effetto prodotto.

 Come s’è detto nella prima parte di quanto stiamo leggendo, se il lettore parte dai C1 e si ferma sui medesimi, non riuscirà, (se non casualmente e fortunatamente!), a comunicare con l’autore di quanto ha letto (visto), cioè a venire a conoscere il motivo e quindi l’idea centrale espressa dall’autore.

 Il lettore non farà opera di comunicazione, perché alla fine della sua riflessione conoscerà soltanto la vicenda dell’opera dell’autore e non avrà in comune con lui l’idea dal medesimo espressa con la sua opera.

 

 Le microsequenze (N.N.) sono facilmente raggruppabili durante la lettura della novella di Pirandello.

 Sostenuto dalla speranza di non fare opera inutile (e noiosa!), propongo un modo di raccoglierle.

 La struttura narrativa generale è divisibile in tre parti, a seconda del luogo nel quale i N.N. vengono ambientati

 

1.                                                                                                                                                   Descrizione fisico psicologica del giudice istruttore D’Andrea.

L’autore lo ‘plasma’ servendosi di aggettivi qualificativi specifici e di verbi specifici (l’insegnante a questo punto può utilmente invitare gli alunni ad elencarli citando le espressioni originali: “magro, non ancora vecchio, piccoli occhi plumbei, magra misera personcina, sbilenco; non poteva dormire…).

Pirandello descrive il comportamento del personaggio, distinguendo il suo modus vivendi (attenzione al MODO!) in casa e in ufficio, durante il giorno e di notte (raccolta dei momenti e dei tempi verbali con prevalenza dell’imperfetto per esprimere continuità abitudinaria temperamentale).                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        È un poveruomo affetto da ‘costipazione d’anima’ e, per di più, quasi maniaco e scrupoloso nel suo lavoro (‘la sua puntualità’).

 

2.                                                                                                                                                           La seconda parte inizia dopo un quarto di spazio stampato, occupato della novella. Per tale motivo il lettore si può chiedere il motivo della lunga descrizione del personaggio: “È lui il protagonista?”

È troppo presto, però, per rispondere. La risposta positiva a questo punto può essere un’intuizione, da verificare soltanto alla fine della lettura.).

Pirandello espone il caso che sconvolge la monotonia del ritmo ordinario della professione del giudice D’Andrea (Ah, povero don Abbondio!, potrebbe esclamare qualcuno ricordando il primo capitolo de “I PROMESSI SPOSI”.

Conviene che riferimenti ad opere precedenti con situazioni simili siano utilmente ricordati dagli allievi alla fine della lettura della novella. Altro è lettura dell’opera, altro è la ricerca di fonti e di riferimenti espliciti o indiretti ad altre opere e ad altri personaggi confrontabili per analogia o per contrasto.

Si tratta d’un certo Chiàrchiaro, che pretende dal giudice l’istruzione del processo per diffamazione contro due individui che l’hanno accusato d’essere uno jettatore, mentre egli sostiene d’esserlo veramente. Contraddizione apparente che manda in tilt la logica del ‘povero’ D’Andrea.                                  Le sue reazioni psicologiche (irritazione smaniosa… tetraggine soffocante), che gli tolgono la pace e gli disturbano o impediscono il sonno, vengono bellamente descritte dal novelliere..

 

3.                                                                                                                                                      Segue la presentazione del Chiàrchiaro, cliente eccezionale del timido giudice, dal quale esige quanto s’è detto (“Io voglio, signor giudice, un riconoscimento ufficiale della mia potenza…voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza spaventosa, che è ormai l’unico mio capitale!”. Pirandello si diverte ‘amaramente’ nel rilevare le incredibili conseguenze dell’ignoranza della gente, fondata su sciocche superstizioni tradizionali.

Il Chiàrchiaro manterrà “la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili…tutti pagheranno per farmi andar via…da botteghe e fabbriche.. [sarà] la tassa della [loro] salute…”.

 Dopo aver professato il suo “odio contro tutta questa schifosa umanità …ignorante”, supplica il giudice d’accontentarlo.

 A questo punto conviene riferire la conclusione imprevedibile della novella:

Il giudice D’Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo che l’angoscia che gli serrava la gola desse adito alla voce. Ma la voce non volle venir fuori; e allora egli, socchiudendo dietro le lenti i piccoli occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte forte, a lungo.

 Questi lo lasciò fare.

- Mi vuol bene davvero?… E allora istruisca subito il processo, e in modo da farmi avere al più presto quello che desidero…La patente”.

 

 È stato interessante evidenziare le reazioni del povero giudice D’Andrea di fronte alle provocazioni (tali sono dunque le ‘azioni’ del cliente!) del Chiàrchiaro, che in modo evidente è presentato da Pirandello come l’antagonista del giudice, di fronte al quale si comporta per provocarne le reazioni, compresa l’ultima. 

 Protagonista della novella è, per i motivi detti, il giudice D’Andrea.

 La sintesi del racconto può essere così espressa: È LASTORIA DEL GIUDICE D’ANDREA, (a questo punto un paio di aggettivi qualificativi specifici in riferimento alla sua psicologia vengono scelti oggettivamente, dall’insegnante con i suoi allievi, dalla composizione letteraria dell’autore),

IL QUALE, dopo aver resistito alla stranissima richiesta del suo cliente Chiàrchiaro …,

alla fine cede e lo abbraccia dimostrandogli comprensione e compatimento.

 Morale della favola, anzi della novella (ci avviciniamo così all’IDEA CENTRALE): Atavica ignoranza e superstizioni invincibili provocano vittime innocenti di fronte alle quali non resta che l’impossibilità di porre rimedio al male, se non attenuarne le tristi conseguenze con umana comprensione.     

 Il passaggio da È LA STORIA DI all’IDEA CENTRALE presuppone l’individuazione del livello al quale l’autore ha posto il protagonista.

 Nel nostro caso è al livello di persona umana con le caratteristiche descritte, e quindi, si direbbe, al livello di categoria, non tanto come giudice istruttore, quanto come persona psicologicamente non immune da certe credenze superstiziose.

 

*   *   *

 
 

 Passiamo ora all’applicazione della lettura strutturale al breve film con il titolo omonimo della novella. Non l’ho scelto perché sia un capolavoro, ma soltanto perché si presta nella sua brevità e semplicità all’esercizio didattico che potrebbe essere proposto a giovani spettatori.

È uno dei quattro episodio di QUESTA È LA VITA (1954, Italia, 93’,B/N, tratto da quattro novelle di Pirandello LA GIARA regia di Giorgio Pastina, IL VENTAGLIO regia di Mario Soldati, LA PATENTE regia di Luigi Zampa, MARSINA STRETTA regia di Aldo Fabrizi, distrib. Titanus uscito nel 1961 col titolo LA PATENTE); il nostro, è intitolato, LA PATENTE.

Il fatto che il personaggio di Chiàrchiaro sia stato interpretato da Totò, (attore comico troppo importante per non essere lui il protagonista del film), non ci deve tentare di anticipare il giudizio: il film sarà LA STORIA DI Chiàrchiaro-Totò.

 Questa anticipazione, prima di leggere il film, è illecita. Tutto al più può essere tenuta presente, in un film di facile lettura e per di più con al centro un interprete celebre, come ipotesi di lavoro, da verificare con la lettura strutturale.

 Le anticipazioni, di solito per intuizione, sono pericolose, perché potrebbero influenzare la lettura strutturale del film, rendendola più difficile e meno oggettiva nel caso che la conclusione del lavoro del lettore presentasse oggettivamente conclusioni diverse dalla intuizione iniziale. Sarebbe difficile allora ‘sacrificare’ la propria intuizione ed arrendersi al risultato derivante dalla lettura strutturale.

 

 La lettura si può fare almeno in due modi.

 Primo.

 Dopo la visione del film, ricostruire LA VICENDA (C1), ripercorrendo la vicenda da capo e riferendone in un secondo tempo LA STORIA attraverso i C2. 

 Secondo.

 Fissare l’attenzione sulla decisione e scelta finale del protagonista e chiederci: PERCHÉ ha fatto quella scelta? Trovata la risposta, ci si chiede: e PERCHÉ è successa quella cosa? Si procede così nella serie dei ‘perché’ andando a ritroso del film visto, cominciando dunque dalla fine e risalendo verso l’inizio finché si arriva all’ultima risposta all’ultimo perché che corrisponde al primo N.N. con le prime inquadrature del film.

 

 Quale MODO vogliamo scegliere per il nostro esercizio didattico?

 Si potrebbe cominciare, come abbiamo fatto con la novella omonima, evidenziando immediatamente durante la visione del film, non prima evidentemente!, le sue parti strutturali.

 Anzitutto non conviene, ma poi non è possibile. La novella infatti si può rileggere e poi operare come sopra. Lo spettatore, invece, di solito non si ferma in sala pubblica per rivedere il film.

 È opportuno eseguire due letture, (ci insegnava p. Taddei): una DURANTE la proiezione cercando di memorizzare (prendendo, se è possibile, brevissimi appunti) quanto si vede e si ascolta (C1) nei MODI di presentazione dello spettacolo (C2), e l’altra DOPO la visione.

 La lettura DURANTE consente di accorgerci, (dopo alcuni esercizi pratici), del momento (inquadratura, scena, sequenza) nel quale la seconda parte inizia seguendo la prima e così via per la terza.

 Le osservazioni prese nella LETTURA DURANTE prepara ed accumula il materiale che servirà nella LETTURA DOPO.

 

 Sappiamo già, (mi sia permesso di ripetere quanto appena detto!), anche da esposizioni pubblicate in EDAV che il film, come del resto qualunque altro ‘segno comunicativo, si divide in parti semplici, detti episodi o nuclei narrativi, che si polarizzano grazie a ‘forze’ coagulanti, che possiamo chiamare perni strutturali, che di solito sono due: il primo che riguarda il protagonista ed il secondo l’antagonista, ognuno dei due (o dei due gruppi, se i protagonisti e gli antagonisti sono più d’uno) con propri contorni uno e due.

 Ricordiamo ancora una volta le tre domande fondamentali che lo spettatore deve porsi:

1. COSA SUCCEDE al protagonista? Che cosa all’antagonista?

2. Ma soprattutto COME succede quello che succede all’uno ed all’altro?

3. Terza domanda: PERCHÉ succede in quel MODO (anzi: perché il regista fa succedere in quel MODO quello che succede?).

 Prescindo dalla spiegazione, presentata altre volte nella nostra rivista, sulle tre domande e sull’importanza della seconda, se si vuole arrivare a trovare la risposta alla terza, che offre allo spettatore lo strumento per arrivare a leggere l’IDEA CENTRALE DEL FILM.

 

 a) LA VICENDA (= i contorni uno dei nuclei narrativi a livello medio del breve film, cioè ognuno con senso abbastanza concluso in sé) verrà qui presentata con caratteri neri,

 b) IL RACCONTO (= i relativi contorni due dei medesimi nuclei narrativi) con caratteri rossi.

 Scelgo, quindi, per motivo didattico, di presentare la lettura strutturale del film iniziando dalle prime inquadrature in poi, senza dividere le due letture DURANTE e DOPO.

 L’esperienza mi dice che esso funziona con gli allievi studenti…se sono stati praparati.

 Non rifuggirò dalle ripetizioni di idee e di termini, pur di offrire un testo chiaro e leggibile a tutti gli interessati.

 A mano a mano che procederemo con la lettura DURANTE, potremo concludere, sempre parzialmente!, con la significazione parziale del film fino a quel punto. Il significato finale arriverà alla conclusione.

 E veniamo, dunque, al film.
1.
  
LA PATENTE

Sceneggiatura di Vitaliano Brancati e Luigi Zampa

Regìa di Luigi Zampa
con TOTO’.
 

Il titolo e il cast vengono offerti (con dissolvenze incrociate) allo spettatore sullo sfondo d’un rotolo di carta aperto con su scritte a mano poche righe: il riferimento va alla novella di Pirandello, dalla quale il film prende le mosse.

 La musica che introduce e accompagna l’inquadratura del titolo è un ‘andante allegretto’.

 
 NOTA di metodo.

 Se l’apparizione d’un personaggio sullo schermo è sempre abbinata ad una certa idea musicale, chiameremo quell’intervento ‘motivo conduttore’ di quel personaggio. Talvolta, come spesso accade nello scorrere del cast di coda del film, il motivo conduttore, (che potrebbe essere accostato a quello dell’antagonista), ricorda allo spettatore il personaggio al quale si riferisce senza farlo rivedere.

 Un esercizio didattico molto efficace per educare l’orecchio degli allievi a cogliere i due motivi musicali conduttori che, nel caso, si riferiscono a due eserciti belligeranti, francese e russo, è dato dall’ascolto della ouverture op. 49 “1812” di Ciaikovski.

 
 2.

 Interno di casa: un uomo (autoritario e che non ammette repliche) ordina con gesto imperativo ad una giovane (sua figlia) di andargli a prende cravatta e vestito neri (“devo uscire”). Lei cerca di sconsigliarlo ma deve cedere. (espressivi PPP psicofisici di lui). L’aiuto pecuniario che invia il figlio lontano per lavoro, non è sufficiente a mantenere la famiglia.

 
3.

 Analoga situazione con una figlia minore, che deve consegnargli gli occhiali (“non questi, quelli neri!”) . Le due figlie non sono soddisfatte del comportamento del padre ma non possono che obbedire in silenzio. Le figlie sono tre: la più piccola gli porge il cappello nero. Alla domanda chi sia morto, dal momento che vuole uscire vestito a lutto: “Io”, risponde. È stato allontanato dal lavoro perché giudicato “jettatore, appestato!”. Anche il fidanzato della figlia maggiore ha abbandonato sua figlia per stare lontano da lui. Ora sa come fare per riuscire a tirare avanti con la sua famiglia! (“Lasciatemi fare!”)

 
4.

 Il solito personaggio s’avvicina alla moglie in carrozzella (lei lo chiama Rosario), compatendo la sua infermità. Anche la moglie lo dissuade inutilmente dall’uscire vestito in quel modo ‘funebre’.

 (Sintesi parziale: a questo punto il regista ci ha messo davanti un uomo con le caratteristiche evidenziate: è padre di tre figlie (nella novella sono due), due sono nubili, una è ancora bambina, e la moglie paralitica da mantenere. La sua risorsa economica si fonda sullo sfruttamento della credenza popolare ch’egli sia uno jettatore).

 Il film inizia presentando lungamente il personaggio ‘strano e malefico’, Rosario, contrariamente alla novella, che dedicava le prime pagine al giudice D’Andrea.

 I gesti, l’inforcare e togliere dal naso gli occhiali in quel modo, la mimica del volto sono segni della sua convinzione d’essere quello che la gente lo giudica. Unici a non credergli sono i membri della sua famiglia, che egli dichiara di voler mantenere con la sua ‘potenza’.

 Il compatimento per l’incredulità dei familiari non lo distoglie minimamente dal suo progetto.

È evidente che neppure lui crede alla sua potenza di jettatore, ma la superstizione popolare gli fornisce il mezzo per vivere disprezzando ed ingannando tutti.

È pronto ad uscire di casa con occhiali neri, cravatta, cappello e guanti neri.
 
5.

 Cambio di ambiente e di personaggi (dissolvenza incrociata). Ci rendiamo conto che inizia la SECONDA PARTE del film. Non sempre però il cambio di ambiente e di personaggi è criterio discriminante della divisione in parti.

 Studio legale: dialogo tra il giudice istruttore e l’impiegato o segretario.

 Se il giudice è il D’Andrea della novella (come intuiamo immediatamente!), la sua presentazione ne è in netto contrasto fisico e psicologico (l’età corrisponde al personaggio pirandelliano; questo però è disinvolto, alieno da scrupoli burocratici e senza incubi notturni che ne condizionino l’attività legale. Non crede alla jettatura di Rosario Chiàrchiaro (ora veniamo a conoscere nome e cognome), che giudica “stupidaggine”).  

 
6.

 Il Chiàrchiaro arriva (entra misterioso come un fantasma: tutto nero, vestito cappello e occhiali ) nello studio legale, dove il giudice sta parlando con il suo segretario, il quale, contrariamente al giudice, dichiara di credere allo jettatore che gli incute paura. All’incredulità del D’Andrea fa da controcanto la telefonata (per stacco) al segretario, che viene avvertito d’un incidente che ha colpito suo cognato, per cui deve correre a casa (La causa è attribuita allo jettatore!).

 

7.

Lungo dialogo tra il giudice istruttore, che rimane sereno e tranquillo di fronte al cliente, che cerca di convincerlo della sua ‘potenza’e del risultato che si prefigge di ottenere dalla credulità del popolo circa quella sua medesima influenza negativa, che si propone di mettere in atto appostandosi a fianco dell’entrata di botteghe e negozi come minaccia di disgrazie imminenti…se i proprietari non lo pagano perché s’allontani. Così potrà sfamare i familiari. Gli è necessaria, come garanzia di riuscita, la patente di jettatore..

 La performance del Chiàrchiaro è drammaticamente comica con sfumature grottesche.

 Del tutto inutile è la resistenza del giudice incredulo con i tentativi di dissuadere il cliente dal suo proposito e dalla sua assurda richiesta di far istruire il processo per ottenere l’improbabile patente.

 La prima parte del dialogo si svolge con il giudice seduto al tavolino di lavoro e il cliente in piedi di fronte a lui; poi il Chiàrchiaro gli si siede davanti: PPP del volto; sotto il mento è in evidenza la testa d’una specie di ‘civetta’, che forma l’impugnatura del suo bastone da passeggio, messa in PP dal regista con dettaglio a scopo semiologica intimidatorio.

Quando il Chiàrchiaro s’accosta alla finestra dello studio con in testa il cappello nero, oltre che occhiali e vestito nero, bastone con la civetta in evidenza, e simula, per convincere il giudice, il suo atteggiamento di fronte alle botteghe e negozi per farsi allontanare a pagamento, il contrasto tra il cappello bianco del giudice, appeso al mobile presso la finestra e ripreso in PP, ed il suo di colore nerofumo, esprimono il contrasto di idee e convinzioni dei due personaggi.

 Come sempre, sono i contorni due che assumono valenza semiologica, spesso con particolari che sembrano insignificanti ma che nel contesto hanno importanza.

 
8.

 L’udienza termina con la minaccia del cliente che al giudice incredulo potrebbe capitare una disgrazia (“cadervi il lampadario in testa!”): vediamo il Chiàrchiaro che esce dallo studio legale sfidando il giudice, che è fermo in piedi sotto il grande lampadario (appeso al soffitto), che all’uscita dello jettatore gli cade sulla testa. Il Chiàrchiaro, dopo uno sguardo ‘d’intesa’ verso il lampadario!, esce soddisfatto dell’effetto da lui provocato (sembra dire tra sé. -Adesso mi crederai!).

 
9.

 Il Chiàrchiaro sulla strada della città. Inizia la TERZA PARTE narrativa del film (cambio di ambiente).(Ascoltiamo il motivo musicale deformato dell’inizio del funebre “Dies irae!”)

Affronta malamente (motivo musicale già ascoltato nelle prime inquadrature del titolo) uno dei due suoi accusatori/‘delatori’ e lo obbliga ad entrare nel suo negozio di fuochi d’artificio. Lo rimprovera di averlo “accusato/”  (!)e lo lascia sconvolto e terrorizzato da minacce (“Anatèma a te!”) ed esce con faccia alterata e riso sardonico e prezzante. Il malcapitato fugge mentre botti e girandole, (spontaneamente accessisi!) offrono al pubblico in strada uno spettacolo pirotecnico gratuito in pieno giorno. -Non ci credono ancora?, sembra dire tra sé; aspettate e vedrete!- Comunica allo spettatore il suo pensiero con la mimica efficacissima in PPP..

 
10.

 Lo jettatore ferma brutalmente sulla strada il secondo suo ‘accusatore/’delatore’ (“Professore dei miei stivali!”), ex fidanzato della figlia maggiore (che, per difenderlo, aveva affermato d’essere stata lei a lasciarlo “perché non andavamo d’accordo”), e che “porta ancora il lutto per la morte della madre!”, e lo obbliga a deporre in tribunale in suo ‘favore’, cioè a testimoniare la sua potenza di jettatore.

 Si accosta con fierezza minacciosa (ripresa del motivo musicale d’inizio del film) ai cittadini seduti attorno ai tavolini del bar ed ai gruppi che passeggiano tranquilli.

 I cittadini terrorizzati lo evitano, s’allontanano quando lo vedono arrivare, toccano ferro, impugnano cornetti, fanno scongiuri con le dita delle mani minacciandolo con i corni. Egli avanza pettoruto e vittorioso.

Rimprovera chi affonda le mani in tasca in cerca di aiuto.

 
10.

 Molte brevi inquadrature hanno lo scopo di testimoniare la diffusa credenza dei cittadini della minaccia, ormai generale, da lui rappresentata con le possibili disgrazie, dalle quali bisogna guardarsi. Attenti quindi allo jettatore! La costante e ripetuta ripresa minacciante in PP dello jettatore armato di bastone con ‘civetta’non è mai inutile ai fini dello spettacolo, che si presenta da capo a fondo (fino a questo punto) esilarante per la bravura dell’interprete, la efficace capacità delle ‘spalle’ che provocano la sua performance, irridente e mai comprensivo nei riguardi dell’ignoranza e della credulonità superstiziosa del popolo. Obbliga tutti a deporre in tribunale contro di lui per sostenere la sua fama di jettatore. Essi reagiscono spaventati.

 Egli riprende con alterigia e sicurezza del fatto suo il giro malefico in città.

 Intervento musicale catastrofico (“Dies irae!”), eseguito in modo grottesco deformato.

 
11.

 Poco manca che un’automobile lo travolga sulla strada: egli reagisce “Fai attenzione, eh!”.

La vettura finisce contro i banchi del mercato di frutta e verdura. “Lo sapevo!” commenta soddisfatto e gratificato.

 
12,

 Aula del tribunale. (Cambio del luogo con dissolvenza incrociata: è uno dei modi attraverso i quali possiamo raccogliere e numerare i nuclei narrativi). La testa del giudice D’Andrea, che pronuncia la sentenza, è vistosamente bendata (dopo la caduta del lampadario!).

 Non possiamo dedurre di trovarci nella quarta parte del film: siamo vedendo una conseguenza di nuclei narrativi precedenti.

 Il giudice in piedi emette la sentenza: “Ascoltate le numerose testimonianze, vagliati i documenti e considerati avvenimenti lontani (guarda in su ricordando la sua triste esperienza) e recenti, il tribunale assolve ”… i due imputati “dall’accusa di diffamazione perché hanno raggiunto la prova del fatto!” di Rosario Chiàrchiaro, che esprime tra il pubblico presente alla sentenza la sua soddisfazione con mimica efficace. (I due imputati sono nel film il figlio del sindaco ed un assessore comunale; nella novella di Pirandelloil Chiàrchiaro “aveva voluto prendersela coi primi due che gli erano capitati sotto mano” )

 I due diffamatori, insomma, non hanno calunniato il Chiàrchiaro; hanno soltanto detto la verità!

 D’Andrea appare nel film non soltanto come giudice istruttore (vedi la novella di Pirandello), ma come giudice giudicante.

 
12.

 (Cambio di luogo con dissolvenza incrociata: casa di Chiàrchiaro). Egli detta (con atteggiamento spocchioso da dittatore) alla figlia maggiore (“è la rovina!”) le tasse che devono pagare quelli che avvicinerà (“Macché rovina, è la nuova vita, arriveranno soldi a palate…Scrivi!” ). Egli prevede che arriverà il giorno in cui “abbandonerà il vestito nero e si presenterà alla città con vestito bianco e una rosa rossa sul petto”. Ha in mano il destino del futuro suo e della sua famiglia!.

 
13.

 (Ripresa musicale del “Dies irae!”) Cambio di luogo: strada pubblica.

 Chiàrchiaro si rivolge minaccioso alla città (s’è fatta sera, la città è immersa in un buio significativo! Il passaggio d’inquadratura da lui alla città notturna avviene per dissolvenza incrociata, tecnica interessante in questo caso perché reimmerge il protagonista nel suo habitat popolare) alzando il bastone verso di essa sfidandola (motivo del “Dies irae!”): “Ed ora, a noi due!”.

 I brevi e talvolta laconici monologhi di Chiàrchiaro sono scanditi dall’interprete ad alta voce e con gesti minacciosi come imperiosi comandi dittatoriali.

 Il motivo conduttore del protagonista compare soltanto nei nuclei narrativi principali.

 Voce fuori campo (breve accenno in sottofondo al motivo musicale dell’inizio del film: inclusione musicale): “Ma la lotta col paese non ci sarà, perché anche per Rosario Chiàrchiaro la vita tornerà a sorridere con o senza patente”.

 Considero la voce fuori campo un umoristico commento del regista (“tanto rumore per nulla!”).

 Se si prendesse come parte integrante del film, l’idea centrale del medesimo sarebbe diversa da quella che sarà esposta più avanti.

FINE.
 

 Riferisco a questo punto l’osservazione d’uno spettatore dopo la lettura strutturale del film in un corso per studenti.

“Resta da chiedere allo sceneggiatore del film ed in seconda istanza al regista il motivo del citato “tanto rumore per nulla”. Per quale motivo hanno messo in scena un popolano ed un intellettuale come accusatori/diffamatori d’un povero diavolo tacciato di delitto di porta sfortuna, per poi fare risolvere il processo contro i due indagati contro di loro a favore del presunto jettatore, con una accusa contro di lui (che in realtà si risolve con l’assoluzione degli imputati, che hanno riconosciuto e testimoniato la prova della sua ‘ innocenza/colpevolezza’) che gli merita “LA PATENTE” da lui tanto agognata?

A parte la logica contraddittoria dell’accusa/prova della sua ‘potenza’, (che l’artista Pirandello nella novella propone da pari suo in modo caustico e polemico contro gente ignorante, che egli disprezza ed infine compatisce), gli autori del film che pasticcio hanno combinato?

Difficile rispondere alla domanda!

L’ammirazione invece circa la performance del protagonista è sincera”.

 La riflessione sull’’apparente contraddizione’ ha fatto rientrare la speciosa obiezione.

 
SINTESI.
 

La PRIMA PARTE DEL FILM presenta la modesta famiglia di Rosario Chiàrchiaro, che egli vuol decorosamente mantenere con l’unica risorsa che gli rimane, dopo essere stato licenziato da ogni lavoro dipendente, perché si porta addosso la fama popolare di jettatore..

La SECONDA PARTE mette in scena il suo dialogo nell’udienza concessagli dal giudice D’Andrea, dal quale egli esige “la patente” giuridica di jettatore, mentre l’altro cerca inutilmente di dissuaderlo dall’assurda pretesa.

Nella TERZA PARTE siamo messi di fronte alle prove della potenza malefica del Chiàrchiaro, dichiarato infine legalmente jettatore dall’incredulo giudice D’Andrea, vittima a sua volta degli effetti negativi dell’incredulità circa la ‘potenza’ dello strano cliente.

 

 È, dunque, LA STORIA DEL GIUDICE D’ANDREA, insistentemente importunato da Rosario Chiàrchiaro, (alla cui vantata fama di jettatore egli non vorrebbe dar credito), di concedergli la patente legale di jettatore, che gli consentirebbe di praticare tale professione a vantaggio della sua famiglia, IL QUALE, dopo aver tentato in ogni modo di dissuadere il cliente da simile richiesta, rimasto egli pure vittima della sua negativa influenza, e convinto dalle prove raccolte contro di lui, e quindi in favore della sua pretesa, gli CONCEDE la patente desiderata.

 

 Il Chiàrchiaro rimane coerente con la sua idea dall’inizio alla fine del film, resistendo agli attacchi dei familiari, del giudice che non gli crede, dei cittadini tra i quali sembrano esserci alcuni non ancora perfettamente convinti della sua potenza. Il suo passaggio dallo stato d’animo iniziale a quello finale consiste soltanto nel fatto che alla fine si mostra soddisfatto della sua iniziativa di avere fatto istruire il processo terminato a suo favore.

 Il giudice D’Andrea, che prima giura di non credere, alla fine non soltanto crede ma premia la pretesa del suo cliente. È dunque lui il protagonista del film.

 

 Se le cose stanno così, sembra che i due testi, letterario e cinematografico, si corrispondano nel protagonista e che raccontino, dunque, la medesima storia.

 In realtà l’evoluzione del giudice della novella lo porta ad un gesto di compatimento e di solidarietà umana verso il suo cliente, vittima d’una fama alla quale egli sembra adeguarsi .

 Nel film egli arriva ad esercitare il suo legittimo potere giudiziario fino a concedere, arrivando a gradi a quel punto!, al suo cliente il riconoscimento pubblico d’una ‘potenza’ e capacità che non ha ma che è fondata soltanto su diceria popolare ed eventualmente su una sua esperienza personale negativa, forse casuale, ma interpretata come frutto della potenza malefica del Chiàrchiaro..

 
 
NOTA.

 Con molta perplessità si potrebbe ipotizzare come protagonista del film il Chiàrchiaro.

 Nel caso, sarebbe sua LA STORIA, perché alla fine ottiene quello che voleva e sfrutta così la mentalità e l’ignoranza superstiziosa dei concittadini.

 L’evoluzione psicologica del film ruota, però, attorno al giudice D’Andrea (che è quindi il protagonista), provocato dal Chiàrchiaro.

 

 È a questo punto che veniamo a scoprire la ‘sorpresa’ annunciata all’inizio.

 I due testi, letterario e cinematografico, riferendo la medesima vicenda con i medesimi personaggi, raccontano due storie, perché i medesimi protagonisti, che hanno caratteristiche personali (C2) diverse, fanno alla fine scelte e decisioni diverse, che comunicano idee centrali diverse.   .

 Le conseguenze sono dipese dai MODI (C2) di raccontare le due vicende (C1) da parte degli autori.

 Le differenze principali fisiche e psicologiche dei personaggi dei due testi sono state segnalate man mano che il film procedeva.

 Il film si rifà alla novella con libertà nella sceneggiatura.

 L’IDEA CENTRALE DEL FILM potrebbe essere così espressa: quando la fama popolare e la diceria tradizionale, diffuse ed accettate per ignoranza e superstizione, arrivano a costituire argomento di cultura (anche inconscia) di pacifico possesso, è ben difficile che qualcuno, pur attento e prudente, possa rimanere indenne dalle conseguenze di diffusione della mentalità generale dell’ambiente in cui vive, riuscendo a coinvolgere nella ignorante superstizione, (all’interno del quale c’è sempre chi ne trae profitto), anche persone che per cultura e professione si pensa che me dovrebbero rimanere esenti e che in realtà si assimilano all’opinione comune.

 
 OSSERVAZIONI CONCLUSIVE …

…con le quali spero di non annoiare il lettore ripetendo idee fondamentali per scrupolo di chiarezza.

 

 Se riassumiamo il film nel modo seguente: “”È la storia di Rosario Chiàrchiaro, il quale, dopo avere usato tutte le sue strategie per ottenere la patente, infine la ottiene dal giudice inizialmente contrario alla stramba pretesa””, senza dubbio riferiamo realisticamente la vicenda del film

 Se però vogliamo dimostrare chi sia il protagonista del film applicando le tre regole classiche per scoprirlo, concluderemo che protagonista è il giudice, per cui “”È LA STORIA DEL GIUDICE eccetera…””

 Infatti:
  1. Il regista illustra la psicologia del Chiàrchiaro e quella del giudice D’Andrea. Per questa prima regola potrebbero essere protagonisti del film tutti e due i personaggi.
  2. Tutti i personaggi del film, compreso Rosario Chiàrchiaro, agiscono in funzione del giudice D’Andrea; cioè per farlo reagire psicologicamente e fisicamente.
  3.  L’evoluzione psicologica del giudice D’Andrea è resa evidente a gradi fino a convincerlo di concedere alla fine la patente di jettatore a Rosario Chiàrchiaro.
 

Allora:       a. protagonista è il giudice D’Andrea,

b. la storia è quella del giudice D’Andrea

c. l’Idea Centrale deriva dalla storia del giudice D’Andrea, che nel film è diversa da quella della novella, anche se il protagonista della novella è ugualmente il giudice D’Andrea.

 

 Protagonista della novella e quello del film è il medesimo personaggio.

 È questa la sorpresa: il personaggio delle due opere è il medesimo MA A LIVELLI DIVERSI.

 È questo che conta!

 Verrebbe da affermare che sono due personaggi diversi ma ‘omonimi’.

Il primo a livello di persona assimilata alla mentalità comune corrente ;

il secondo che gradatamente si assimila alla mentalità corrente, malgrado la sua cultura superiore alla normalità popolare ed al suo ruolo e conseguente autorità sociale da cui è rivestito.

 
 La storia è piena di casi simili.

 Esopo, ad esempio, (e quanti dopo di lui!…) racconta favole con protagonista la volpe, che, a seconda dei casi, è astuta (quasi sempre!) oppure ingenua (vedi l’invito a pranzo da parte della cicogna, dopo il suo ‘scherzo’ all’uccello dal lungo becco!), dalle quali derivano morali (“la storia dimostra che…”), diverse l’una dall’altra.

 

 Anche in campo cinematografico si sono verificati casi analoghi..

Nel film INDIANS, ad esempio, il regista Richard T. Heffron (1975) non condanna gli “Indios” come violenti esaltando le truppe regolari americane che li vogliono rinchiudere nelle loro ‘riserve’, né, contrariamente alla tradizione, rovescia i ruoli vincitori/vinti. Egli presenta il generale governativo ed il capo tribù pellerossa senza assegnare a nessuno dei due l’onore di gloriosa vittoria. La giusta causa nel conflitto armato non stava esclusivamente in uno dei due campi militari, come spesso viene attribuita nei film del genere. Tutti e due i responsabili degli schieramenti meritano rispetto ed ammirazione per l’impegno esercitato nel compimento fedele e responsabile del loro dovere.

 Sotto tale profilo sono posti dall’autore del film sul medesimo piano.

 Il film è antimilitarista; lo scontro armato è, secondo il regista, per sua natura antiumano.

 

 La novità nel nostro caso consiste, ripeto per l’ultima volta!, nella presentazione di due storie con il medesimo personaggio, connotato dai due autori, letterario e cinematografico, con caratteristiche personali diverse.

Nella novella di Pirandello il protagonista arriva a commuoversi di fronte al caso pietoso.

Nel film di Zampa il protagonista si arrende (si direbbe ‘si converte!’) di fronte alle pretese assurde dell’antagonista e gli concede quello che per convinzione personale e secondo giustizia avrebbe dovuto negargli.

 Tutte le conseguenze, e quindi anche le differenti idee centrali delle DUE STORIE, derivano dal cumulo dei C2 che connotano i C1 dell’UNICA VICENDA RACCONTATA IN DUE MODI. (Adelio Cola, Torino 13 agosto 2008)

   

LA LETTURA STRUTTURALE DEL FILM: PROVARE PER CREDERE

LETTERATURA E CINEMA: LA PATENTE di Pirandello e di Zampa, episodio del film QUESTA È LA VITA

di Don Adelio Cola

 
 

Alla fine di corsi di esercitazioni di lettura strutturale per insegnanti mi è stato spesso rivolto il consiglio di far pubblicare su EDAV esempi pratici della medesima di testi letterari e di film “con tutti i passaggi”, 

peresemplificare “in pratica COME SI FA”.

Alla mia risposta che esempi pratici sono stati già pubblicati, la controrisposta suonava pressappoco così: non devo illudermi che essi siano stati letti da tutti gli abbonati; conviene quindi presentarne altri ogni tanto perché “repetita juvant”.

“Abbiamo provato a fare come indicato dagli esempi riportati dalla rivista, mi confidano due giovani coniugi. Ora ci crediamo, non per argomento d’autorità ma per esperienza personale. Il metodo funziona!”

 Ecco il problema.

 Fu detto e insistito dal mio maestro, p. Nazareno Taddei, (+2006), che il protagonista d’un film si scopre osservando i cosiddetti “contorni due” del suo MODO di parlare, di agire e soprattutto di reagire a quello che succede a lui e attorno a lui.

Tanto per intenderci, almeno per coloro che non hanno avuto la buona sorte di conoscere il sunnominato padre gesuita e di frequentare i suoi corsi di studio, con il termine ‘contorni uno’ (C1) ci si riferisce alle qualità esterne e materiali d’un soggetto (persona, animale, cosa, evento…), ad esempio forma, colore, dimensioni, peso …, che ce lo fanno identificare come uomo animale pianta…

 “Contorni due” (C2)  invece chiamiamo le peculiarità e, se si tratta di persone, la psicologia, che lo distinguono dagli altri uomini, donne, animali, piante…

 L’importanza della distinzione tra C1 e C2 sarà oggetto delle prossime riflessioni.

 Divido il seguente studio in due parti, una teorica e l’altra pratica.

 
* * *
 

PARTE PRIMA con un punto di partenza… apparentemente ‘banale’:

La distinzione tra C1 e C2.
 

 La distinzione tra C1 e C2 si fonda, ripeto come punto imprescindibile di partenza, sulla diversa attenzione che il lettore e l’osservatore pongono sul fatto che l’oggetto conosciuto è quello che è così come appare con le sue particolarità individuali. Esse non si possono separare materialmente (da una parte i C1 e dall’altra i C2): l’operazione, la divisione sono operazioni mentali. 

 Antonio, ad esempio, e Antonietta, sono due persone umane, lui un uomo, lei una donna: se mi fermo a questo livello di osservazione e di conoscenza, Antonio e Antonietta sono per me come tutte le persone che hanno i medesimi nomi.

Che cosa distingue gli uni dagli altri e le une dalle altre? Le qualità esteriori ed interiori personali, diverse le une dalle altre. Non esiste un Antonio ‘identico’ ad un altro ed una Antonietta perfettamente clone d’un’altra, non soltanto fisicamente ma sotto qualunque altro aspetto e livello, intellettuale, morale, sentimentale, culturale in genere.

 Fino a quando osservo Antonio e dico che egli è un uomo e Antonietta definendola donna, parlo di lui e di lei limitandomi ad osservare e ad elencare i loro C1. Di loro come persone distinte da tutte le altre con i loro medesimi nomi non dico nulla.

-          Chi hai incontrato al mercato questa mattina?.

-          Ho incontrato Antonio.

-          Ma COME era Antonio questa mattina al mercato? (L’esempio del dialogo tra me e chi mi interroga vale anche, evidentemente, se si trattasse di Antonietta). Era allegro o triste, indaffarato come sempre o ‘disteso’, da solo o in compagnia…?

Soltanto rispondendo obiettivamente a simili domande, io comunico qualche cosa di personale di Antonio (o di Antonietta).

Il passaggio dai C1 ai C2 corrisponde a quanto la carta d’identità documenta di Antonio o di Antonietta: foto, data e luogo di nascita, colore degli occhi e dei capelli, segni particolari, impronte (se la legge lo esige) dei polpastrelli delle dita. Insomma le cosiddette generalità; sono i connotati, quelli che il vigile stradale, ad esempio, che ferma un automobilista per controllare i documenti di viaggio vuole vedere, per assicurarsi del rispetto del codice della strada da parte dell’automobilista. Essi si potrebbero anche chiamare con termine di estrazione letteraria le ‘connotazioni’.

Le ‘denotazioni’ non sono sufficienti ad individuare l’automobilista.

 

Quanto detto fino a questo punto è accettato da tutti, data l’evidenza del contenuto delle affermazioni.

 Il problema inizia quando si parla, non di denotazioni e connotazioni, ma di C1 e C2 in ambiti diversi, eppure a tutti familiari, quale quello della comunicazione attraverso le immagini. E mi spiego.

 Se io osservo un’immagine qualsiasi e di qualunque natura (immagine allo specchio, dipinta, fotografata, musicale…), devo distinguere in ogni caso C1 e C2. Se non piace il termine ‘contorni’, usiamone pure un altro, ad esempio qualità o aspetti particolari. L’importante è non confondere le due facce, non d’una medaglia, ma d’un oggetto, persona, evento.

 Come detto sopra, la distinzione è soltanto operazione mentale dell’osservatore. L’oggetto rimane quello che è senza esibire prima i suoi C1, in forza dei quali l’osservatore dichiara di vedere e di conoscere un uomo o una donna, un campanile o una torre, un negozio o un’osteria …e poi i suoi C2.

 Se egli aspetta che la persona o l’oggetto conosciuto gli dichiari i C2 che lo distinguono da tutti gli uomini, le donne, i campanili, le osterie esistenti…, egli rimarrà deluso!

 Dev’essere lui ad interrogare indirettamente l’oggetto osservandolo con attenzione: - COME sei fatto? Qual è il tuo MODO particolare di essere?-  

 Le risposte, che egli stesso deve trovare, gli consentono di individuare i C2 della realtà.

 

 Ma perché, si chiederà, questa l’insistenza sulla necessità di distinguere C1 e C2?

 Perché, insegnava p. Taddei, altrimenti si prendono fischi per fiaschi. Il negativo effetto si può verificare anche nella normale comunicazione tra persone.

 Si può dialogare con parole, a voce diretta o per telefono; eccezionalmente per radio, perché è vero che l’ascoltatore comunica con chi parla al microfono ascoltando la radio, ma di solito non può rispondere e dialogare …’a ping pong’! La comunicazione radiofonica è di sua natura autoritaria: è raro il caso che l’ascoltatore possa confrontare le sue opinioni direttamente con lo speaker che parla.

 Qualche cosa di simile succede quando noi ammiriamo un’opera d’arte (un quadro, un monumento, ascoltiamo una composizione musicale, assistiamo alla proiezione d’un film…): noi non possiamo dialogare immediatamente e normalmente con l’autore! Il dialogo rimane per così dire, sospeso, o meglio unidirezionale.

 Quando, ad esempio, il regista ‘ha detto’ (meglio: ‘ha espresso’) le sue idee, ha dato vita, cioè, al suo film od alla sua trasmissione televisiva, quello che voleva dire l’ha detto.

 Il destinatario, spettatore o teleutente, non ha la possibilità, di solito, di intervenire per dire la sua e stabilire così dialogo e confronto con l’autore dell’opera vista ed ascoltata. Anche se potesse, il peso d’importanza spettacolare del contenuto interiore del regista sarebbe molto superiore per suggestione a quello che lo spettatore potrebbe esporre per confrontarsi con lui! Egli però non dovrebbe rinunciare a ‘dire la sua’ (a confrontare, cioè, il suo contenuto interiore con quello del regista!), almeno per non accettare acriticamente le idee dell’autore dello spettacolo.

Tale argomento è stato affrontato più volte da EDAV con il consiglio della lettura strutturale.

 Dialogo, torniamo a noi, è passaggio di idee e sentimenti di chi parla a chi ascolta e reciprocamente dal secondo al primo.

 Naturalmente il dialogo funziona se esistono le condizioni normali (a livello normale, non specialistico), tra i soggetti dialoganti. Se l’argomento non è alla portata di chi ascolta, chi parla adopera una lingua sconosciuta all’ascoltatore. Se quest’ultimo non ha intenzione, attenzione ed interesse nei riguardi di quanto il proponente espone, il dialogo non può funzionare per mancanza di condizioni soggettive o, altre volte, di strumenti previi al dialogo.

 - Che cosa ha detto il regista del film che hai visto? Che cosa ha detto l’autore della trasmissione televisiva alla quale hai assistito?…”

 Se chi risponde a tali domande si limita a riferire i contenuti, anche in modo obiettivo (e quindi non deformati o adulterati a causa di falsa lettura e comprensione o di deliberata volontà di contraffazione), del film e della trasmissione televisiva ricordando puntualmente soltanto i cosiddetti C1, significa che il dialogo tra lui e l’autore del film e della trasmissione non c‘è stato. Per conseguenza l’ex spettatore girerà, non attorno alle idee e sentimenti espressi dal regista, ma alle idee e sentimenti suoi personali.

 La domanda allora dovrebbe essere un’altra: - Che impressione ti ha fatto il film o la televisione?- Anch’essa è legittima. Ma il film e la trasmissione televisiva non sono opere di comunicazione impressionistica, ma (nella migliore delle ipotesi!) di comunicazione.

 Gli autori del film e della TV non hanno affidato quello che effettivamente hanno espresso e comunicato agli spettatori affidando idee e sentimenti ai cosiddetti C1 audiovisivi ma ai relativi C2. Tutto al più lo spettatore del nostro caso riferisce bene o male quello che egli ha capito (o s’illude d’aver capito!), avendo visto e ascoltato le immagini visive e sonore del film e della trasmissione, ma non quanto i loro autori hanno effettivamente espresso per mezzo di dette immagini.

 Succede normalmente anche nella vita quotidiana che il vero senso e significato delle parole e dei gesti d’una persona mentre parla con un’altra (ecco il dialogo!) non stiano nelle parole e nei gesti pronunciati e bellamente esibiti, ma…

 In che cosa, dunque? Nell’insieme dei MODI che i dialoganti usano per scambiarsi pensieri e sentimenti.

 Baciare, ad esempio, non significa amare: anche Giuda sa baciare!

 Offrire un mazzo di fiori, non sempre ha significato di omaggio: anche la mafia offre fiori!

 Suonare la banda non è sempre segno di festa: c’è anche la marcia funebre!…

-          Ho sentito per strada una donna che dalla finestra diceva ‘Caterina’!-

-    Ma perché?                                                                                                                                          Se non viene riferito il MODO di dire (chiamare, gridare, implorare, gemere…) ‘Caterina’, chi ascolta colui che racconta d’aver sentito dire ‘Caterina’ non può capire il motivo di quel semplice verbo ‘dire’, che corrisponde soltanto ai C1.

 - Ho visto un giovane correre sulla strada-.

 Correre COME, PERCHÉ? Correva, scappava, inseguiva, accorreva…? Per sfuggire agli inseguitori o per raggiungere gli amici?…

 Il verbo ‘correre’ è C1 dell’azione del giovane: troppo poco per comprendere il motivo della sua corsa, evidentemente nel caso che chi l’ha visto correre ne conosca il motivo.

 Il senso di ogni comunicazione è, per così dire, contenuto, nascosto e velato sotto I MODI usati dal comunicante per raggiungere coloro ai quali egli si rivolge con la sue parole, opere, film, trasmissioni radiofoniche e televisive, internet, pubblicità e propaganda (anche soltanto stampate).

 
* * *

 Il lettore si è forse interrogato sulla ‘scivolata’ fatta da chi scrive partendo dal terreno della comune necessità di distinguere C1 e C2 nell’ampio campo della comunicazione umana e arrivando a quello specifico della comunicazione attraverso i mass media.

 La scivolata è stata volontaria e corrisponde alla scelta di intrattenere il lettore sul campo di riflessione, che di solito non viene convenientemente ‘esplorato’. Ne fa fede la statistica, che ognuno può raccogliere, chiedendo rispettosamente a tempo opportuno a spettatori amici e parenti di film e trasmissioni televisive: ‘Com’era il film o la trasmissione?’

 È probabile che si senta rispondere: -Interessante (che significa?…), bella, brutta, uno schifo, spazzatura…-

 PERCHÉ? Ecco la domanda test: da qui può cominciare la raccolta delle risposte alle domande riguardanti l’indagine della statistica ipotizzata. Non si tratta di sfruttare l’occasione per tacciare d’ignoranza gli intervistati; non è questo il motivo machiavellico che spinge a raccogliere argomenti come prove della verità d’una tesi. È, semmai, la conferma che nel dialogo, per ‘CAPIRE’ ciò che una persona (regista, ad esempio) dice con il suo film, è necessario stare attenti ai MODI di confezionamento della sua opera.

 S’è detto altre volte in EDAV che tale ricerca si fa percorrendo una certa strada, cioè applicando al film la LETTURA STRUTTURALE proposta da p. Taddei, dopo d’aver ‘scoperto’ il protagonista del film, osservando il suo MODO di comportarsi e di reagire di fronte a quanto succede nel film medesimo.

 Non è opportuno ripetere a questo punto una pur breve esposizione del metodo Taddei per la lettura del film, della trasmissione televisiva ed in genere delle comunicazioni attraverso le immagini.

 Uno strumento utile per mantenersi aggiornati sull’argomento è quello di partecipare alle iniziative del CiSCS (Centro internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale) da lui fondato, come ad esempio iscriversi ai corsi programmati e abbonarsi alla rivista EDAV, che dal 1972 divulga il suo insegnamento.

 

PARTE SECONDA con un punto d’arrivo…che si spera probante.

 

 Finora, conclude forse qualche lettore, è stato ‘menato il can nell’aia’, insistendo su ‘banalità’ di comune pacifico possesso, abbastanza superflue nella loro riproposta.

 Scendo, allora, dalle nuvole del ragionamento astratto e vengo con i piedi per terra.

 Voglio sperimentare quanto affermato nella prima parte applicandone il succo, per così dire, ad un film, ad un piccolo, anzi ad un breve film.

 Dal momento che l’esperimento è stato fatto più volte in corsi d’applicazione della metodologia Taddei           offerti a colleghi insegnanti, posso anticipare, non soltanto la loro soddisfazione finale costatando l’utilità della Lettura Strutturale del film, ma la gratificazione consistente nella…sorpresa conclusiva.

 Anticipo al film una breve lettura strutturale della novella dal quale il film desume la sceneggiatura. Sarà un utile esperimento confrontare novella e film omonimi.

 Chi intende partecipare, non dico ‘sottoporsi’, all’esperimento, farebbe bene anticipare la lettura della novella di Luigi Pirandello ‘LA PATENTE’.

 Se il lettore è insegnante di lettere, dopo la lettura della pagina del celebre autore agli studenti, concluderebbe probabilmente la lezione sintetizzando la novella più o meno con queste parole: - Si tratta del giudice D’Andrea, il quale, convinto e preoccupato di trovarsi di fronte ad un maniaco infatuato da superstiziose idee popolari, dopo avergli ripetutamente negato di prestarsi per istruirgli il processo che gli avrebbe dovuto concedere la patente di jettatore, da lui insistentemente richiesta come garanzia del suo lavoro per mantenere così la famiglia convincendo i suoi concittadini d’essere in grado di causare disgrazie e quindi facendosi pagare ‘la tassa della salute’, alla fine, stanco e impressionato dalla petulante insistenza del cliente , pur di toglierselo d’intorno, dimostra comprensione umana e quasi solidarietà al povero diavolo-.

 Dov’è qui la sorpresa? Non c’è. Tutto fila a dovere. C’è il GIUDICE PROTAGONISTA e, per così dire, l’antagonista che lo fa reagire. Normale che in una novella si rispetti la solita regola narratologica.

 Il fatto poi che ci sia da ricavare dalla storia del giudice D’Andrea la morale della favola, come da qualunque altra storia, è un aspetto sul quale non ci fermiamo per il momento.

 Non elenco le, (come le chiama qualcuno), microsequenze della novella: ognuna comprende qualche riga stampata.

 Ogni verbo ‘dinamico’ (dire, dare, fare…), anche prescindendo dai verbi, per così dire, ‘statici’ e dai numerosi descrittivi psicofisici, indica azioni e reazioni che espomgono parziali progressioni narrative. Ognuna, considerata nel contesto delle precedenti e seguenti, costituisce una ‘microsequenze’, che preferisco denominare con p. Taddei NUCLEO NARRATIVO (N.N.)

 I N.N. che riferiscono le azioni-reazioni del personaggio protagonista e quelli dell’antagonista che li provocano, permettono di dividere il racconto (nel nostro caso la novella) in DUE PARTI STRUTTURALI SEMIOLOGICHE.

 La raccolta dei pensieri-sentimenti-ideali che spingono ad agire i due personaggi (o i due gruppi di personaggi, come ad esempio in un racconto di guerra con i due eserciti combattenti), li possiamo chiamare PERNI STRUTTURALI (di natura narrativa o/e semiologica) (P.S.) (vedi p. Taddei).

 Il contenuto interiore dei P.S. permette di connotarli anche come FILONI (psicologia del protagonista e dell’antagonista).

 Le due parti strutturali semiologiche del racconto corrispondono di solito a tale osservazione.

 

 Ho usato il termine ‘racconto’ in quanto mi riferisco al MODO usato dall’autore nell’esporre la ‘vicenda’ della novella (è così anche per il film). Essa si riferisce all’insieme narrativo dei C1 e narra ciò che succede (risponde alla domanda: CHE COSA ho visto, che cosa ho ascoltato?), subordinatamente al ‘racconto’ che fissa l’attenzione sui C2 (COME è successo ciò che è successo?).

 La risposta alla prima domanda non permette al lettore della novella (e allo spettatore del film) di rendersi conto del motivo che ha determinato l’autore a comporre (a dirigere) la sua opera (l’IDEA CENTRALE), la causa, insomma, all’origine dell’effetto prodotto.

 Come s’è detto nella prima parte di quanto stiamo leggendo, se il lettore parte dai C1 e si ferma sui medesimi, non riuscirà, (se non casualmente e fortunatamente!), a comunicare con l’autore di quanto ha letto (visto), cioè a venire a conoscere il motivo e quindi l’idea centrale espressa dall’autore.

 Il lettore non farà opera di comunicazione, perché alla fine della sua riflessione conoscerà soltanto la vicenda dell’opera dell’autore e non avrà in comune con lui l’idea dal medesimo espressa con la sua opera.

 

 Le microsequenze (N.N.) sono facilmente raggruppabili durante la lettura della novella di Pirandello.

 Sostenuto dalla speranza di non fare opera inutile (e noiosa!), propongo un modo di raccoglierle.

 La struttura narrativa generale è divisibile in tre parti, a seconda del luogo nel quale i N.N. vengono ambientati

 

1.                                                                                                                                                   Descrizione fisico psicologica del giudice istruttore D’Andrea.

L’autore lo ‘plasma’ servendosi di aggettivi qualificativi specifici e di verbi specifici (l’insegnante a questo punto può utilmente invitare gli alunni ad elencarli citando le espressioni originali: “magro, non ancora vecchio, piccoli occhi plumbei, magra misera personcina, sbilenco; non poteva dormire…).

Pirandello descrive il comportamento del personaggio, distinguendo il suo modus vivendi (attenzione al MODO!) in casa e in ufficio, durante il giorno e di notte (raccolta dei momenti e dei tempi verbali con prevalenza dell’imperfetto per esprimere continuità abitudinaria temperamentale).                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        È un poveruomo affetto da ‘costipazione d’anima’ e, per di più, quasi maniaco e scrupoloso nel suo lavoro (‘la sua puntualità’).

 

2.                                                                                                                                                           La seconda parte inizia dopo un quarto di spazio stampato, occupato della novella. Per tale motivo il lettore si può chiedere il motivo della lunga descrizione del personaggio: “È lui il protagonista?”

È troppo presto, però, per rispondere. La risposta positiva a questo punto può essere un’intuizione, da verificare soltanto alla fine della lettura.).

Pirandello espone il caso che sconvolge la monotonia del ritmo ordinario della professione del giudice D’Andrea (Ah, povero don Abbondio!, potrebbe esclamare qualcuno ricordando il primo capitolo de “I PROMESSI SPOSI”.

Conviene che riferimenti ad opere precedenti con situazioni simili siano utilmente ricordati dagli allievi alla fine della lettura della novella. Altro è lettura dell’opera, altro è la ricerca di fonti e di riferimenti espliciti o indiretti ad altre opere e ad altri personaggi confrontabili per analogia o per contrasto.

Si tratta d’un certo Chiàrchiaro, che pretende dal giudice l’istruzione del processo per diffamazione contro due individui che l’hanno accusato d’essere uno jettatore, mentre egli sostiene d’esserlo veramente. Contraddizione apparente che manda in tilt la logica del ‘povero’ D’Andrea.                                  Le sue reazioni psicologiche (irritazione smaniosa… tetraggine soffocante), che gli tolgono la pace e gli disturbano o impediscono il sonno, vengono bellamente descritte dal novelliere..

 

3.                                                                                                                                                      Segue la presentazione del Chiàrchiaro, cliente eccezionale del timido giudice, dal quale esige quanto s’è detto (“Io voglio, signor giudice, un riconoscimento ufficiale della mia potenza…voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza spaventosa, che è ormai l’unico mio capitale!”. Pirandello si diverte ‘amaramente’ nel rilevare le incredibili conseguenze dell’ignoranza della gente, fondata su sciocche superstizioni tradizionali.

Il Chiàrchiaro manterrà “la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili…tutti pagheranno per farmi andar via…da botteghe e fabbriche.. [sarà] la tassa della [loro] salute…”.

 Dopo aver professato il suo “odio contro tutta questa schifosa umanità …ignorante”, supplica il giudice d’accontentarlo.

 A questo punto conviene riferire la conclusione imprevedibile della novella:

Il giudice D’Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo che l’angoscia che gli serrava la gola desse adito alla voce. Ma la voce non volle venir fuori; e allora egli, socchiudendo dietro le lenti i piccoli occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte forte, a lungo.

 Questi lo lasciò fare.

- Mi vuol bene davvero?… E allora istruisca subito il processo, e in modo da farmi avere al più presto quello che desidero…La patente”.

 

 È stato interessante evidenziare le reazioni del povero giudice D’Andrea di fronte alle provocazioni (tali sono dunque le ‘azioni’ del cliente!) del Chiàrchiaro, che in modo evidente è presentato da Pirandello come l’antagonista del giudice, di fronte al quale si comporta per provocarne le reazioni, compresa l’ultima. 

 Protagonista della novella è, per i motivi detti, il giudice D’Andrea.

 La sintesi del racconto può essere così espressa: È LASTORIA DEL GIUDICE D’ANDREA, (a questo punto un paio di aggettivi qualificativi specifici in riferimento alla sua psicologia vengono scelti oggettivamente, dall’insegnante con i suoi allievi, dalla composizione letteraria dell’autore),

IL QUALE, dopo aver resistito alla stranissima richiesta del suo cliente Chiàrchiaro …,

alla fine cede e lo abbraccia dimostrandogli comprensione e compatimento.

 Morale della favola, anzi della novella (ci avviciniamo così all’IDEA CENTRALE): Atavica ignoranza e superstizioni invincibili provocano vittime innocenti di fronte alle quali non resta che l’impossibilità di porre rimedio al male, se non attenuarne le tristi conseguenze con umana comprensione.     

 Il passaggio da È LA STORIA DI all’IDEA CENTRALE presuppone l’individuazione del livello al quale l’autore ha posto il protagonista.

 Nel nostro caso è al livello di persona umana con le caratteristiche descritte, e quindi, si direbbe, al livello di categoria, non tanto come giudice istruttore, quanto come persona psicologicamente non immune da certe credenze superstiziose.

 

*   *   *

 
 

 Passiamo ora all’applicazione della lettura strutturale al breve film con il titolo omonimo della novella. Non l’ho scelto perché sia un capolavoro, ma soltanto perché si presta nella sua brevità e semplicità all’esercizio didattico che potrebbe essere proposto a giovani spettatori.

È uno dei quattro episodio di QUESTA È LA VITA (1954, Italia, 93’,B/N, tratto da quattro novelle di Pirandello LA GIARA regia di Giorgio Pastina, IL VENTAGLIO regia di Mario Soldati, LA PATENTE regia di Luigi Zampa, MARSINA STRETTA regia di Aldo Fabrizi, distrib. Titanus uscito nel 1961 col titolo LA PATENTE); il nostro, è intitolato, LA PATENTE.

Il fatto che il personaggio di Chiàrchiaro sia stato interpretato da Totò, (attore comico troppo importante per non essere lui il protagonista del film), non ci deve tentare di anticipare il giudizio: il film sarà LA STORIA DI Chiàrchiaro-Totò.

 Questa anticipazione, prima di leggere il film, è illecita. Tutto al più può essere tenuta presente, in un film di facile lettura e per di più con al centro un interprete celebre, come ipotesi di lavoro, da verificare con la lettura strutturale.

 Le anticipazioni, di solito per intuizione, sono pericolose, perché potrebbero influenzare la lettura strutturale del film, rendendola più difficile e meno oggettiva nel caso che la conclusione del lavoro del lettore presentasse oggettivamente conclusioni diverse dalla intuizione iniziale. Sarebbe difficile allora ‘sacrificare’ la propria intuizione ed arrendersi al risultato derivante dalla lettura strutturale.

 

 La lettura si può fare almeno in due modi.

 Primo.

 Dopo la visione del film, ricostruire LA VICENDA (C1), ripercorrendo la vicenda da capo e riferendone in un secondo tempo LA STORIA attraverso i C2. 

 Secondo.

 Fissare l’attenzione sulla decisione e scelta finale del protagonista e chiederci: PERCHÉ ha fatto quella scelta? Trovata la risposta, ci si chiede: e PERCHÉ è successa quella cosa? Si procede così nella serie dei ‘perché’ andando a ritroso del film visto, cominciando dunque dalla fine e risalendo verso l’inizio finché si arriva all’ultima risposta all’ultimo perché che corrisponde al primo N.N. con le prime inquadrature del film.

 

 Quale MODO vogliamo scegliere per il nostro esercizio didattico?

 Si potrebbe cominciare, come abbiamo fatto con la novella omonima, evidenziando immediatamente durante la visione del film, non prima evidentemente!, le sue parti strutturali.

 Anzitutto non conviene, ma poi non è possibile. La novella infatti si può rileggere e poi operare come sopra. Lo spettatore, invece, di solito non si ferma in sala pubblica per rivedere il film.

 È opportuno eseguire due letture, (ci insegnava p. Taddei): una DURANTE la proiezione cercando di memorizzare (prendendo, se è possibile, brevissimi appunti) quanto si vede e si ascolta (C1) nei MODI di presentazione dello spettacolo (C2), e l’altra DOPO la visione.

 La lettura DURANTE consente di accorgerci, (dopo alcuni esercizi pratici), del momento (inquadratura, scena, sequenza) nel quale la seconda parte inizia seguendo la prima e così via per la terza.

 Le osservazioni prese nella LETTURA DURANTE prepara ed accumula il materiale che servirà nella LETTURA DOPO.

 

 Sappiamo già, (mi sia permesso di ripetere quanto appena detto!), anche da esposizioni pubblicate in EDAV che il film, come del resto qualunque altro ‘segno comunicativo, si divide in parti semplici, detti episodi o nuclei narrativi, che si polarizzano grazie a ‘forze’ coagulanti, che possiamo chiamare perni strutturali, che di solito sono due: il primo che riguarda il protagonista ed il secondo l’antagonista, ognuno dei due (o dei due gruppi, se i protagonisti e gli antagonisti sono più d’uno) con propri contorni uno e due.

 Ricordiamo ancora una volta le tre domande fondamentali che lo spettatore deve porsi:

1. COSA SUCCEDE al protagonista? Che cosa all’antagonista?

2. Ma soprattutto COME succede quello che succede all’uno ed all’altro?

3. Terza domanda: PERCHÉ succede in quel MODO (anzi: perché il regista fa succedere in quel MODO quello che succede?).

 Prescindo dalla spiegazione, presentata altre volte nella nostra rivista, sulle tre domande e sull’importanza della seconda, se si vuole arrivare a trovare la risposta alla terza, che offre allo spettatore lo strumento per arrivare a leggere l’IDEA CENTRALE DEL FILM.

 

 a) LA VICENDA (= i contorni uno dei nuclei narrativi a livello medio del breve film, cioè ognuno con senso abbastanza concluso in sé) verrà qui presentata con caratteri neri,

 b) IL RACCONTO (= i relativi contorni due dei medesimi nuclei narrativi) con caratteri rossi.

 Scelgo, quindi, per motivo didattico, di presentare la lettura strutturale del film iniziando dalle prime inquadrature in poi, senza dividere le due letture DURANTE e DOPO.

 L’esperienza mi dice che esso funziona con gli allievi studenti…se sono stati praparati.

 Non rifuggirò dalle ripetizioni di idee e di termini, pur di offrire un testo chiaro e leggibile a tutti gli interessati.

 A mano a mano che procederemo con la lettura DURANTE, potremo concludere, sempre parzialmente!, con la significazione parziale del film fino a quel punto. Il significato finale arriverà alla conclusione.

 E veniamo, dunque, al film.
1.
  
LA PATENTE

Sceneggiatura di Vitaliano Brancati e Luigi Zampa

Regìa di Luigi Zampa
con TOTO’.
 

Il titolo e il cast vengono offerti (con dissolvenze incrociate) allo spettatore sullo sfondo d’un rotolo di carta aperto con su scritte a mano poche righe: il riferimento va alla novella di Pirandello, dalla quale il film prende le mosse.

 La musica che introduce e accompagna l’inquadratura del titolo è un ‘andante allegretto’.

 
 NOTA di metodo.

 Se l’apparizione d’un personaggio sullo schermo è sempre abbinata ad una certa idea musicale, chiameremo quell’intervento ‘motivo conduttore’ di quel personaggio. Talvolta, come spesso accade nello scorrere del cast di coda del film, il motivo conduttore, (che potrebbe essere accostato a quello dell’antagonista), ricorda allo spettatore il personaggio al quale si riferisce senza farlo rivedere.

 Un esercizio didattico molto efficace per educare l’orecchio degli allievi a cogliere i due motivi musicali conduttori che, nel caso, si riferiscono a due eserciti belligeranti, francese e russo, è dato dall’ascolto della ouverture op. 49 “1812” di Ciaikovski.

 
 2.

 Interno di casa: un uomo (autoritario e che non ammette repliche) ordina con gesto imperativo ad una giovane (sua figlia) di andargli a prende cravatta e vestito neri (“devo uscire”). Lei cerca di sconsigliarlo ma deve cedere. (espressivi PPP psicofisici di lui). L’aiuto pecuniario che invia il figlio lontano per lavoro, non è sufficiente a mantenere la famiglia.

 
3.

 Analoga situazione con una figlia minore, che deve consegnargli gli occhiali (“non questi, quelli neri!”) . Le due figlie non sono soddisfatte del comportamento del padre ma non possono che obbedire in silenzio. Le figlie sono tre: la più piccola gli porge il cappello nero. Alla domanda chi sia morto, dal momento che vuole uscire vestito a lutto: “Io”, risponde. È stato allontanato dal lavoro perché giudicato “jettatore, appestato!”. Anche il fidanzato della figlia maggiore ha abbandonato sua figlia per stare lontano da lui. Ora sa come fare per riuscire a tirare avanti con la sua famiglia! (“Lasciatemi fare!”)

 
4.

 Il solito personaggio s’avvicina alla moglie in carrozzella (lei lo chiama Rosario), compatendo la sua infermità. Anche la moglie lo dissuade inutilmente dall’uscire vestito in quel modo ‘funebre’.

 (Sintesi parziale: a questo punto il regista ci ha messo davanti un uomo con le caratteristiche evidenziate: è padre di tre figlie (nella novella sono due), due sono nubili, una è ancora bambina, e la moglie paralitica da mantenere. La sua risorsa economica si fonda sullo sfruttamento della credenza popolare ch’egli sia uno jettatore).

 Il film inizia presentando lungamente il personaggio ‘strano e malefico’, Rosario, contrariamente alla novella, che dedicava le prime pagine al giudice D’Andrea.

 I gesti, l’inforcare e togliere dal naso gli occhiali in quel modo, la mimica del volto sono segni della sua convinzione d’essere quello che la gente lo giudica. Unici a non credergli sono i membri della sua famiglia, che egli dichiara di voler mantenere con la sua ‘potenza’.

 Il compatimento per l’incredulità dei familiari non lo distoglie minimamente dal suo progetto.

È evidente che neppure lui crede alla sua potenza di jettatore, ma la superstizione popolare gli fornisce il mezzo per vivere disprezzando ed ingannando tutti.

È pronto ad uscire di casa con occhiali neri, cravatta, cappello e guanti neri.
 
5.

 Cambio di ambiente e di personaggi (dissolvenza incrociata). Ci rendiamo conto che inizia la SECONDA PARTE del film. Non sempre però il cambio di ambiente e di personaggi è criterio discriminante della divisione in parti.

 Studio legale: dialogo tra il giudice istruttore e l’impiegato o segretario.

 Se il giudice è il D’Andrea della novella (come intuiamo immediatamente!), la sua presentazione ne è in netto contrasto fisico e psicologico (l’età corrisponde al personaggio pirandelliano; questo però è disinvolto, alieno da scrupoli burocratici e senza incubi notturni che ne condizionino l’attività legale. Non crede alla jettatura di Rosario Chiàrchiaro (ora veniamo a conoscere nome e cognome), che giudica “stupidaggine”).  

 
6.

 Il Chiàrchiaro arriva (entra misterioso come un fantasma: tutto nero, vestito cappello e occhiali ) nello studio legale, dove il giudice sta parlando con il suo segretario, il quale, contrariamente al giudice, dichiara di credere allo jettatore che gli incute paura. All’incredulità del D’Andrea fa da controcanto la telefonata (per stacco) al segretario, che viene avvertito d’un incidente che ha colpito suo cognato, per cui deve correre a casa (La causa è attribuita allo jettatore!).

 

7.

Lungo dialogo tra il giudice istruttore, che rimane sereno e tranquillo di fronte al cliente, che cerca di convincerlo della sua ‘potenza’e del risultato che si prefigge di ottenere dalla credulità del popolo circa quella sua medesima influenza negativa, che si propone di mettere in atto appostandosi a fianco dell’entrata di botteghe e negozi come minaccia di disgrazie imminenti…se i proprietari non lo pagano perché s’allontani. Così potrà sfamare i familiari. Gli è necessaria, come garanzia di riuscita, la patente di jettatore..

 La performance del Chiàrchiaro è drammaticamente comica con sfumature grottesche.

 Del tutto inutile è la resistenza del giudice incredulo con i tentativi di dissuadere il cliente dal suo proposito e dalla sua assurda richiesta di far istruire il processo per ottenere l’improbabile patente.

 La prima parte del dialogo si svolge con il giudice seduto al tavolino di lavoro e il cliente in piedi di fronte a lui; poi il Chiàrchiaro gli si siede davanti: PPP del volto; sotto il mento è in evidenza la testa d’una specie di ‘civetta’, che forma l’impugnatura del suo bastone da passeggio, messa in PP dal regista con dettaglio a scopo semiologica intimidatorio.

Quando il Chiàrchiaro s’accosta alla finestra dello studio con in testa il cappello nero, oltre che occhiali e vestito nero, bastone con la civetta in evidenza, e simula, per convincere il giudice, il suo atteggiamento di fronte alle botteghe e negozi per farsi allontanare a pagamento, il contrasto tra il cappello bianco del giudice, appeso al mobile presso la finestra e ripreso in PP, ed il suo di colore nerofumo, esprimono il contrasto di idee e convinzioni dei due personaggi.

 Come sempre, sono i contorni due che assumono valenza semiologica, spesso con particolari che sembrano insignificanti ma che nel contesto hanno importanza.

 
8.

 L’udienza termina con la minaccia del cliente che al giudice incredulo potrebbe capitare una disgrazia (“cadervi il lampadario in testa!”): vediamo il Chiàrchiaro che esce dallo studio legale sfidando il giudice, che è fermo in piedi sotto il grande lampadario (appeso al soffitto), che all’uscita dello jettatore gli cade sulla testa. Il Chiàrchiaro, dopo uno sguardo ‘d’intesa’ verso il lampadario!, esce soddisfatto dell’effetto da lui provocato (sembra dire tra sé. -Adesso mi crederai!).

 
9.

 Il Chiàrchiaro sulla strada della città. Inizia la TERZA PARTE narrativa del film (cambio di ambiente).(Ascoltiamo il motivo musicale deformato dell’inizio del funebre “Dies irae!”)

Affronta malamente (motivo musicale già ascoltato nelle prime inquadrature del titolo) uno dei due suoi accusatori/‘delatori’ e lo obbliga ad entrare nel suo negozio di fuochi d’artificio. Lo rimprovera di averlo “accusato/”  (!)e lo lascia sconvolto e terrorizzato da minacce (“Anatèma a te!”) ed esce con faccia alterata e riso sardonico e prezzante. Il malcapitato fugge mentre botti e girandole, (spontaneamente accessisi!) offrono al pubblico in strada uno spettacolo pirotecnico gratuito in pieno giorno. -Non ci credono ancora?, sembra dire tra sé; aspettate e vedrete!- Comunica allo spettatore il suo pensiero con la mimica efficacissima in PPP..

 
10.

 Lo jettatore ferma brutalmente sulla strada il secondo suo ‘accusatore/’delatore’ (“Professore dei miei stivali!”), ex fidanzato della figlia maggiore (che, per difenderlo, aveva affermato d’essere stata lei a lasciarlo “perché non andavamo d’accordo”), e che “porta ancora il lutto per la morte della madre!”, e lo obbliga a deporre in tribunale in suo ‘favore’, cioè a testimoniare la sua potenza di jettatore.

 Si accosta con fierezza minacciosa (ripresa del motivo musicale d’inizio del film) ai cittadini seduti attorno ai tavolini del bar ed ai gruppi che passeggiano tranquilli.

 I cittadini terrorizzati lo evitano, s’allontanano quando lo vedono arrivare, toccano ferro, impugnano cornetti, fanno scongiuri con le dita delle mani minacciandolo con i corni. Egli avanza pettoruto e vittorioso.

Rimprovera chi affonda le mani in tasca in cerca di aiuto.

 
10.

 Molte brevi inquadrature hanno lo scopo di testimoniare la diffusa credenza dei cittadini della minaccia, ormai generale, da lui rappresentata con le possibili disgrazie, dalle quali bisogna guardarsi. Attenti quindi allo jettatore! La costante e ripetuta ripresa minacciante in PP dello jettatore armato di bastone con ‘civetta’non è mai inutile ai fini dello spettacolo, che si presenta da capo a fondo (fino a questo punto) esilarante per la bravura dell’interprete, la efficace capacità delle ‘spalle’ che provocano la sua performance, irridente e mai comprensivo nei riguardi dell’ignoranza e della credulonità superstiziosa del popolo. Obbliga tutti a deporre in tribunale contro di lui per sostenere la sua fama di jettatore. Essi reagiscono spaventati.

 Egli riprende con alterigia e sicurezza del fatto suo il giro malefico in città.

 Intervento musicale catastrofico (“Dies irae!”), eseguito in modo grottesco deformato.

 
11.

 Poco manca che un’automobile lo travolga sulla strada: egli reagisce “Fai attenzione, eh!”.

La vettura finisce contro i banchi del mercato di frutta e verdura. “Lo sapevo!” commenta soddisfatto e gratificato.

 
12,

 Aula del tribunale. (Cambio del luogo con dissolvenza incrociata: è uno dei modi attraverso i quali possiamo raccogliere e numerare i nuclei narrativi). La testa del giudice D’Andrea, che pronuncia la sentenza, è vistosamente bendata (dopo la caduta del lampadario!).

 Non possiamo dedurre di trovarci nella quarta parte del film: siamo vedendo una conseguenza di nuclei narrativi precedenti.

 Il giudice in piedi emette la sentenza: “Ascoltate le numerose testimonianze, vagliati i documenti e considerati avvenimenti lontani (guarda in su ricordando la sua triste esperienza) e recenti, il tribunale assolve ”… i due imputati “dall’accusa di diffamazione perché hanno raggiunto la prova del fatto!” di Rosario Chiàrchiaro, che esprime tra il pubblico presente alla sentenza la sua soddisfazione con mimica efficace. (I due imputati sono nel film il figlio del sindaco ed un assessore comunale; nella novella di Pirandelloil Chiàrchiaro “aveva voluto prendersela coi primi due che gli erano capitati sotto mano” )

 I due diffamatori, insomma, non hanno calunniato il Chiàrchiaro; hanno soltanto detto la verità!

 D’Andrea appare nel film non soltanto come giudice istruttore (vedi la novella di Pirandello), ma come giudice giudicante.

 
12.

 (Cambio di luogo con dissolvenza incrociata: casa di Chiàrchiaro). Egli detta (con atteggiamento spocchioso da dittatore) alla figlia maggiore (“è la rovina!”) le tasse che devono pagare quelli che avvicinerà (“Macché rovina, è la nuova vita, arriveranno soldi a palate…Scrivi!” ). Egli prevede che arriverà il giorno in cui “abbandonerà il vestito nero e si presenterà alla città con vestito bianco e una rosa rossa sul petto”. Ha in mano il destino del futuro suo e della sua famiglia!.

 
13.

 (Ripresa musicale del “Dies irae!”) Cambio di luogo: strada pubblica.

 Chiàrchiaro si rivolge minaccioso alla città (s’è fatta sera, la città è immersa in un buio significativo! Il passaggio d’inquadratura da lui alla città notturna avviene per dissolvenza incrociata, tecnica interessante in questo caso perché reimmerge il protagonista nel suo habitat popolare) alzando il bastone verso di essa sfidandola (motivo del “Dies irae!”): “Ed ora, a noi due!”.

 I brevi e talvolta laconici monologhi di Chiàrchiaro sono scanditi dall’interprete ad alta voce e con gesti minacciosi come imperiosi comandi dittatoriali.

 Il motivo conduttore del protagonista compare soltanto nei nuclei narrativi principali.

 Voce fuori campo (breve accenno in sottofondo al motivo musicale dell’inizio del film: inclusione musicale): “Ma la lotta col paese non ci sarà, perché anche per Rosario Chiàrchiaro la vita tornerà a sorridere con o senza patente”.

 Considero la voce fuori campo un umoristico commento del regista (“tanto rumore per nulla!”).

 Se si prendesse come parte integrante del film, l’idea centrale del medesimo sarebbe diversa da quella che sarà esposta più avanti.

FINE.
 

 Riferisco a questo punto l’osservazione d’uno spettatore dopo la lettura strutturale del film in un corso per studenti.

“Resta da chiedere allo sceneggiatore del film ed in seconda istanza al regista il motivo del citato “tanto rumore per nulla”. Per quale motivo hanno messo in scena un popolano ed un intellettuale come accusatori/diffamatori d’un povero diavolo tacciato di delitto di porta sfortuna, per poi fare risolvere il processo contro i due indagati contro di loro a favore del presunto jettatore, con una accusa contro di lui (che in realtà si risolve con l’assoluzione degli imputati, che hanno riconosciuto e testimoniato la prova della sua ‘ innocenza/colpevolezza’) che gli merita “LA PATENTE” da lui tanto agognata?

A parte la logica contraddittoria dell’accusa/prova della sua ‘potenza’, (che l’artista Pirandello nella novella propone da pari suo in modo caustico e polemico contro gente ignorante, che egli disprezza ed infine compatisce), gli autori del film che pasticcio hanno combinato?

Difficile rispondere alla domanda!

L’ammirazione invece circa la performance del protagonista è sincera”.

 La riflessione sull’’apparente contraddizione’ ha fatto rientrare la speciosa obiezione.

 
SINTESI.
 

La PRIMA PARTE DEL FILM presenta la modesta famiglia di Rosario Chiàrchiaro, che egli vuol decorosamente mantenere con l’unica risorsa che gli rimane, dopo essere stato licenziato da ogni lavoro dipendente, perché si porta addosso la fama popolare di jettatore..

La SECONDA PARTE mette in scena il suo dialogo nell’udienza concessagli dal giudice D’Andrea, dal quale egli esige “la patente” giuridica di jettatore, mentre l’altro cerca inutilmente di dissuaderlo dall’assurda pretesa.

Nella TERZA PARTE siamo messi di fronte alle prove della potenza malefica del Chiàrchiaro, dichiarato infine legalmente jettatore dall’incredulo giudice D’Andrea, vittima a sua volta degli effetti negativi dell’incredulità circa la ‘potenza’ dello strano cliente.

 

 È, dunque, LA STORIA DEL GIUDICE D’ANDREA, insistentemente importunato da Rosario Chiàrchiaro, (alla cui vantata fama di jettatore egli non vorrebbe dar credito), di concedergli la patente legale di jettatore, che gli consentirebbe di praticare tale professione a vantaggio della sua famiglia, IL QUALE, dopo aver tentato in ogni modo di dissuadere il cliente da simile richiesta, rimasto egli pure vittima della sua negativa influenza, e convinto dalle prove raccolte contro di lui, e quindi in favore della sua pretesa, gli CONCEDE la patente desiderata.

 

 Il Chiàrchiaro rimane coerente con la sua idea dall’inizio alla fine del film, resistendo agli attacchi dei familiari, del giudice che non gli crede, dei cittadini tra i quali sembrano esserci alcuni non ancora perfettamente convinti della sua potenza. Il suo passaggio dallo stato d’animo iniziale a quello finale consiste soltanto nel fatto che alla fine si mostra soddisfatto della sua iniziativa di avere fatto istruire il processo terminato a suo favore.

 Il giudice D’Andrea, che prima giura di non credere, alla fine non soltanto crede ma premia la pretesa del suo cliente. È dunque lui il protagonista del film.

 

 Se le cose stanno così, sembra che i due testi, letterario e cinematografico, si corrispondano nel protagonista e che raccontino, dunque, la medesima storia.

 In realtà l’evoluzione del giudice della novella lo porta ad un gesto di compatimento e di solidarietà umana verso il suo cliente, vittima d’una fama alla quale egli sembra adeguarsi .

 Nel film egli arriva ad esercitare il suo legittimo potere giudiziario fino a concedere, arrivando a gradi a quel punto!, al suo cliente il riconoscimento pubblico d’una ‘potenza’ e capacità che non ha ma che è fondata soltanto su diceria popolare ed eventualmente su una sua esperienza personale negativa, forse casuale, ma interpretata come frutto della potenza malefica del Chiàrchiaro..

 
 
NOTA.

 Con molta perplessità si potrebbe ipotizzare come protagonista del film il Chiàrchiaro.

 Nel caso, sarebbe sua LA STORIA, perché alla fine ottiene quello che voleva e sfrutta così la mentalità e l’ignoranza superstiziosa dei concittadini.

 L’evoluzione psicologica del film ruota, però, attorno al giudice D’Andrea (che è quindi il protagonista), provocato dal Chiàrchiaro.

 

 È a questo punto che veniamo a scoprire la ‘sorpresa’ annunciata all’inizio.

 I due testi, letterario e cinematografico, riferendo la medesima vicenda con i medesimi personaggi, raccontano due storie, perché i medesimi protagonisti, che hanno caratteristiche personali (C2) diverse, fanno alla fine scelte e decisioni diverse, che comunicano idee centrali diverse.   .

 Le conseguenze sono dipese dai MODI (C2) di raccontare le due vicende (C1) da parte degli autori.

 Le differenze principali fisiche e psicologiche dei personaggi dei due testi sono state segnalate man mano che il film procedeva.

 Il film si rifà alla novella con libertà nella sceneggiatura.

 L’IDEA CENTRALE DEL FILM potrebbe essere così espressa: quando la fama popolare e la diceria tradizionale, diffuse ed accettate per ignoranza e superstizione, arrivano a costituire argomento di cultura (anche inconscia) di pacifico possesso, è ben difficile che qualcuno, pur attento e prudente, possa rimanere indenne dalle conseguenze di diffusione della mentalità generale dell’ambiente in cui vive, riuscendo a coinvolgere nella ignorante superstizione, (all’interno del quale c’è sempre chi ne trae profitto), anche persone che per cultura e professione si pensa che me dovrebbero rimanere esenti e che in realtà si assimilano all’opinione comune.

 
 OSSERVAZIONI CONCLUSIVE …

…con le quali spero di non annoiare il lettore ripetendo idee fondamentali per scrupolo di chiarezza.

 

 Se riassumiamo il film nel modo seguente: “”È la storia di Rosario Chiàrchiaro, il quale, dopo avere usato tutte le sue strategie per ottenere la patente, infine la ottiene dal giudice inizialmente contrario alla stramba pretesa””, senza dubbio riferiamo realisticamente la vicenda del film

 Se però vogliamo dimostrare chi sia il protagonista del film applicando le tre regole classiche per scoprirlo, concluderemo che protagonista è il giudice, per cui “”È LA STORIA DEL GIUDICE eccetera…””

 Infatti:
  1. Il regista illustra la psicologia del Chiàrchiaro e quella del giudice D’Andrea. Per questa prima regola potrebbero essere protagonisti del film tutti e due i personaggi.
  2. Tutti i personaggi del film, compreso Rosario Chiàrchiaro, agiscono in funzione del giudice D’Andrea; cioè per farlo reagire psicologicamente e fisicamente.
  3.  L’evoluzione psicologica del giudice D’Andrea è resa evidente a gradi fino a convincerlo di concedere alla fine la patente di jettatore a Rosario Chiàrchiaro.
 

Allora:       a. protagonista è il giudice D’Andrea,

b. la storia è quella del giudice D’Andrea

c. l’Idea Centrale deriva dalla storia del giudice D’Andrea, che nel film è diversa da quella della novella, anche se il protagonista della novella è ugualmente il giudice D’Andrea.

 

 Protagonista della novella e quello del film è il medesimo personaggio.

 È questa la sorpresa: il personaggio delle due opere è il medesimo MA A LIVELLI DIVERSI.

 È questo che conta!

 Verrebbe da affermare che sono due personaggi diversi ma ‘omonimi’.

Il primo a livello di persona assimilata alla mentalità comune corrente ;

il secondo che gradatamente si assimila alla mentalità corrente, malgrado la sua cultura superiore alla normalità popolare ed al suo ruolo e conseguente autorità sociale da cui è rivestito.

 
 La storia è piena di casi simili.

 Esopo, ad esempio, (e quanti dopo di lui!…) racconta favole con protagonista la volpe, che, a seconda dei casi, è astuta (quasi sempre!) oppure ingenua (vedi l’invito a pranzo da parte della cicogna, dopo il suo ‘scherzo’ all’uccello dal lungo becco!), dalle quali derivano morali (“la storia dimostra che…”), diverse l’una dall’altra.

 

 Anche in campo cinematografico si sono verificati casi analoghi..

Nel film INDIANS, ad esempio, il regista Richard T. Heffron (1975) non condanna gli “Indios” come violenti esaltando le truppe regolari americane che li vogliono rinchiudere nelle loro ‘riserve’, né, contrariamente alla tradizione, rovescia i ruoli vincitori/vinti. Egli presenta il generale governativo ed il capo tribù pellerossa senza assegnare a nessuno dei due l’onore di gloriosa vittoria. La giusta causa nel conflitto armato non stava esclusivamente in uno dei due campi militari, come spesso viene attribuita nei film del genere. Tutti e due i responsabili degli schieramenti meritano rispetto ed ammirazione per l’impegno esercitato nel compimento fedele e responsabile del loro dovere.

 Sotto tale profilo sono posti dall’autore del film sul medesimo piano.

 Il film è antimilitarista; lo scontro armato è, secondo il regista, per sua natura antiumano.

 

 La novità nel nostro caso consiste, ripeto per l’ultima volta!, nella presentazione di due storie con il medesimo personaggio, connotato dai due autori, letterario e cinematografico, con caratteristiche personali diverse.

Nella novella di Pirandello il protagonista arriva a commuoversi di fronte al caso pietoso.

Nel film di Zampa il protagonista si arrende (si direbbe ‘si converte!’) di fronte alle pretese assurde dell’antagonista e gli concede quello che per convinzione personale e secondo giustizia avrebbe dovuto negargli.

 Tutte le conseguenze, e quindi anche le differenti idee centrali delle DUE STORIE, derivano dal cumulo dei C2 che connotano i C1 dell’UNICA VICENDA RACCONTATA IN DUE MODI. (Adelio Cola, Torino 13 agosto 2008)

 


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