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LA TIGRE E LA NEVE



Regia: Roberto Benigni
Lettura del film di: Nazareno Taddei
Edav N: 339 - 2006
Titolo del film: LA TIGRE E LA NEVE
Cast: regia: Roberto Benigni - sogg. e scenegg.: Roberto Benigni, Vincenzo Cerami - fotogr.: Fabio Cianchetti - mus.: Nicola Piovani - mont.: Massimo Fiocchi - scenogr.: Maurizio Sabatini - cost.: Louise Stjernsward - interpr.: Roberto Benigni (Attilio De Giovanni), Jean Reno (Fuad), Nicoletta Braschi (Vittoria), Tom Waits (Se stesso), Giuseppe Battiston (Ermanno), Chiara Pirri (Emilia), Anna Pirri (Rosa), Lucia Poli (Signora Serao), Mariella Valentini (Impiegata dell'aeroporto), Emilia Fox Nancy Gianfranco Varetto (Avvocato Scuotilancia), Andrea Renzi (Dott. Guazzelli), Francesca Cutolo (Carla) - durata: 118' - colore - produz.: Melampo Film - origine: ITALIA, 2005 - distrib.: 01 Distribution (15-10-2005)
Sceneggiatura: Roberto Benigni, Vincenzo Cerami
Nazione: ITALIA
Anno: 2005
Presentato: 56. Festival di Berlino, 2006 - Proiezione speciale
Premi: NASTRO D'ARGENTO 2006 PER IL MIGLIOR SOGGETTO; NASTRO SPECIALE PER MUSICA E FOTOGRAFIA

È il nuovo e ultimo film di Benigni, ma il titolo è quello dell’ultimo libro di poesie di Attilio, il protagonista suo e del film, il quale è un insegnante di poesia e umanamente modesto poeta egli stesso, che s’è innamorato profondamente di Vittoria, la quale per conto suo sta scrivendo una biografia del poeta arabo del tempo, Fuad, che, nel film, vedremo grande amico anche di Attilio ma con tristissimo e non facilmente com­prensibile finale suicida.

Attilio è ossessionato dal sogno di sposare Vittoria, perché non è sua moglie, benché, abbia messo con lui al mondo due splendide bambine.

Questo film di Benigni era atteso con ansia, dopo il meritato successo de la vita è bella e il quasi obliato, ma discretamente apprezzabile, PINOCCHIO. Almeno per noi studiosi di cinema, particolarmente italiani, e critici cinematografici, c’era l’ansia di vedere questa nuova opera, già decantata, prima ancora d’essere realizzata e visibile.

 Ma il film, per me, è stato l’importante occasione di un, anzi doppio, madornale mio errore critico (di «lettura») – che desidero rendere ben noto a tutti quelli che mi seguono culturalmente – per non aver rispettato due grosse norme necessarie o (1 e 2) per fare o per valutare un film, secondo la metodologia che perseguo dopo ampio studio e che in parte ho io stesso formulato.

Due errori metodologici, miei…?!? Da vergognarmi fino ad arrossire…; ma, grazie a Dio, sono ancora in grado di accorgermi degli errori e di volerli denunciare rotundo ore per chiarezza e convinzione e per amore della superiore verità.

Ecco dunque i fatti.

Come accennato, il nuovo film di Benigni è arrivato; io l’ho visto in dvd, con preziosi e fedeli sottotitoli italiani per non udenti; l’ho visto e mi chiedo ancora, pur sapendo ch’è il titolo del libro, al quale ovviamente il film si ispira: «Che significa quel titolo?» e rispondo: «Boh.!., Non si sa! Aspettiamo la fine».

E anche dopo la fine del film, dopo centinaia di momenti in cui mi facevo domande e mi rispondevo con quel «Boh!, non si sa!?!», dimenticando perfino la prima1 e l’altra2 norma mia di fare film ma anche di criticare un film.

Mi chiedo: cosa c’entrano «la tigre e la neve?» A parte il fatto del titolo che è del libro di poesie di Attilio, a un momento del film, la voce f.c. ci dice di una tigre, molto molto al di là nell’Oriente dove fa molto freddo, che è sotto abbondanti nevicate, (che sia questo l’elemento poetico di base?) ma non mi sembrerebbe sufficiente per giustificare la poeticità del film, che peraltro ha ben scarsi elementi corrispettivi.

A un certo punto Attilio e Vittoria si trovano a una conferenza di Fuad, dove questi dice a Vittoria che Attilio ha scritto un libro di poesie con quel titolo e che il pubblico ha molto applaudito quando egli ha letto alcune di quelle poesie.

 La neve che si fa poe­sia, perché cade in un paese caldo come quello dove vive la tigre!?! Tutto qui?…a parte l’ispirazione poetica?!?

Ma in un successivo momento, quando Vittoria è andata in casa di Attilio (fig. 1) e questi le fa osservare che è facile stare insieme (in funzione di sposarsi), Vittoria gli risponde che «è facile come vedere una tigre sotto la neve» (cioè «Tanto, tanto lontano e in Oriente!…»).

Nel momento finale ritroviamo le due figlie, davanti alla casa. Arriva Attilio, ben accolto come papà tornato dopo molto tempo; lí veniamo a conoscere che Vittoria è la mamma delle figlie di Attilio.Vittoria si ferma a parlare con una delle due figlie e ripete di essere sempre molto innamorata di lui! Quindi è tornata a casa, ma come? e perché? «Boh!?! Non si sa né «perché?» né per «co­me?». Vittoria si sdraia su un divano per riposare, Attilio nel salutarla le dà il solito bacio che sempre le dava durante la malattia, e Vittoria si ricorda del bacio e apre gli occhi e vede anche la sua catenina al collo di Attilio e capisce.

Insomma, a chi lí per lí mi chiedeva cosa pensassi del film, ripondevo: « È un film demenziale!»; sí: «demenziale», però «magnifico».

Risposta ripugnante anche a me stesso. A questo punto sono andato a cercare e leggere le critiche di una quindicina di stimati colleghi, critici di cinema, corrispondenti di quotidiani, che non mi hanno convinto del tutto con i loro testi (nessun accenno poi alla scoperta del sogno circa lo sposarsi, se non, forse, un intuitivo accenno in Rondi de «Il Tempo» del 5.10.05! e in Maurizio Porro sul «Corriere della Sera» del 21.10.05 con l’espressione roboante «gran preambolo onirico»). 

Dunque «demenziale»: da DEMENZA: «Grave indebolimento delle facoltà mentali. Infermità mentale //[pari a] idiozia, stupidità»; da DEMENTE:«Colpito da demenza; cretino; squilibrato//us. anche con valore di sost. S. folle, matto, pazzo».

Ho dovuto quindi riprendere tutto da capo e leggendo di lettura strutturale tutto il film, sono arrivato a una basilare scoperta: fin dall’inizio, non si era capito se Attilio e Vittoria fossero o non fossero marito e moglie, bensí genitori delle due bambine, comunque sempre innamorati, ma profondamente desiderosi del sogno di sposarsi.

E perché questo assillo? È importante e risolutivo: per bisogno logico, istintivo, naturale, pressoché giuridico, d’una reale consistenza del loro amore.

Come genitori, infatti, tale consistenza era assolutamente mutila, mancante: era solo bio-fisiologica, cioè animalesca, non umana: l’uomo è sí animale, bensí animale ragionevole, cioè dotato delle qualità intellettive, che lo aprono alla spiritualità. Ecco la grossa mancanza di «spessore»: la tipica parte umana della ragione intellettiva, che, se manca, manca la vera qualità «umana», e quindi la dignità: è il matrimonio vero e soprattutto quello religioso, che offre lo spessore autentico e completo dell’amore, in tutta la sua grande dignità e quasi divina completezza, nel tempo e nello spazio: «non si separi quello che Dio ha unito!», dice il Vangelo! (cfr. Prima Enciclica del nuovo Papa «Dio è amore»).

Discorso molto serio e di base: la scoperta di quello che andava scoperto e cioè la semplice verità della realtà di quell’amore.

Film…quindi, altro che «de­menziale»!, con quell’ansia di vero matrimonio: lo sposarsi dei due innamorati, esso avrebbe assunto il vero livello e spessore; ma, cosí li rendeva giustamente insoddisfatti: mancava la consistenza dell’amore razionale (u­mano e non solo animalesco), inteso da Dio, cioè partecipe dell’infinito.

Data questa basilare scoperta, sotto il profilo artistico il film non si presenterebbe né mutilo né demenziale e quindi mostrerebbe un tale rigore nella struttura, da divenire un magnifico film di storia e di cultura, come esso realmente sarebbe a gloria di chi l’ha concepito come vicenda e l’ha realizzato come esemplare racconto filmico.

Ho ricostruito i nuclei narrativi e i perni strutturali del film, costruito proprio sulla base di quel perno strutturale centrale (l’ansia di non essere sposati) dato dal fatto che i due protagonisti, tanto innamorati dal bisogno di mettere al mondo, come frutto del loro amore due splendide bambine, ma non soddisfatti, hanno avvertito profondamente che il loro grande amore era pressoché mutilo e quasi inesistente, comunque ben al di sotto di quel livello di quasi divina dignità, che, nel film, però, è riconquistata con la vita di completa dedizione esistenziale disinteressata di Attilio nei confronti di Vittoria ferita e in pericolo di vita a Bagdad: il sogno cessa infatti nell’istante in cui Attilio decide di andare a Bagdad, e ci va rocambolescamente, procurando anche con enorme stravaganza le introvabili medicine (fig. 2). E ci riesce con estrema dedizione disinteressata, com’è appunto il vero amore umano, ufficialmente riconosciuto nella società, architettato da Dio, mediante il Suo Cristo.

 Tutto si faceva chiaro fin dalla prima domanda che il film ci faceva fare: chi sono quei due, che all’inizio si abbracciano cosí intensamente? Due legati da passione, piú che da spiritualità. Quello è un sogno d’amore; e chi sono quei due o tre anziani che sorridono e perché sono lí a quel punto?, non vi rispondete: «Boh?!?, non lo so!» bensí, ora dovete rispondere: sono parte del sogno: quei due si fanno le cose loro e perciò, in PPP, sorridono con benevola accettazione, pensando alle due belle bambine che i due hanno fatto in barba alle regole solite».

Idem alla fine, quando l’immagine vi mostra Attilio in PM che se ne va con in mano la gabbietta dalla quale sono fuggiti i due uccellini, che le figlie gli avevano regalato per il suo inatteso rientro, dopo aver salutato a quel modo i presenti (moglie e figli) e scompare e riappare e poi scompare (o pare scomparire) del tutto e vi chiedete: «Che significa?», non vi rispondete per una millesima volta: «Boh!?!, Non so!»

Insomma, senza la vera lettura strutturale del film, la tentazione sarebbe di concludere:«È un film demenziale» ma, potenzialmente magnifico, per la perfetta grande resa di un’idea tematica, quella del vero matrimonio: dedizione totale disinteressata.

Fuori della vera lettura strutturale resta invece solo la tentazione di «demenziale».

Il film inizia in una chiesa all’aperto (con tutta la sua gente in due file), orientale (non si specifica quale religione, però con, per autorevole capo, un solenne Pope e tipici chie­richetti, in un clima sponsale. Per quanto orientale, c’è sempre di mezzo l’infinito Signore che ha architettato anche l’amore e quello matrimoniale. Lo spazio sacro di quel luogo d’amore, che richiama necessariamente l’Infinito Iddio, è circoscritto da archeologiche mura con una solenne porta romanica, sulla quale, non preannunciato, si presenta Attilio, in mutande e col telefonino in mano, che scende tra il pubblico, tra il quale due o tre anziani in PP e sorridenti; e, mentre sta per dire qualcosa ai musicanti, il Pope lo invita a sé e invita il pubblico a sedersi, come per assistere a qualcosa di importante; e infatti, al suo intenso scampanellare, sulla stessa porta appare Vittoria vestita da sposa che il Pope invita a sé e accennando ad Attilio dice: «Questa donna deve dirti qualcosa» e lei gli propina di botto, nella intensa attenzione di lui, il seguente monologo: «Attilio di Giovanni, Attilio di Giovanni, io canto il tuo nome, parola che mi apre le porte del paradiso. Io non ti perderò mai; lo vogliono gli dei. Quando mi baci, arrivano fuori i Cavalli dell’Apocalisse; e, se penso al tuo corpo, difficoltoso e vago, la vertigine mi si porta via. La tua divinità maschia ascende al cielo. Sei bello! Tu girasole impazzito di luce, ogni volta che i tuoi occhi si sollevano, si accende il firmamento.

«Amici, ecco qui la terra, come una madre, allatta la sua creatura piú bella. O amore, ogni cosa è al colmo del fervore; dalla mia gola, le stelle si alza la parola, come una cometa d’oro: ti amo.

«Voglio fare l’amore con te adesso»; e Attilio, sorpreso, esclama con vigore: «Questo è il piú bel verso che abbia mai sentito in vita mia!».

Poesia…; certo, poesia d’amore; certo. Ma un po’ ben piú stravagante, tutta istintiva, piú che suadente.

Poi, ci troviamo nell’aula d’una scuola, dove Attilio tiene lezione sulla poesia: «Innamoratevi e buttatevi per terra» e lo fa (fig. 4) e tutti guardano, «da dove almeno potete vedere il cielo.»

Non si capisce cosa vuol dire quel buttarsi a quel modo per terra e il film, quasi a ogni suo momento, soprattutto, con le immagini, sembra non arrivare a dir niente di concreto e di preciso… Certo: parla di amore; ma cos’è l’amore (cfr. i lemmi «eros» e «agape» che sono quelli che la cultura greca ha utilizzato per definire l’amore sotto due profili differenti)?…. È almeno, amore? Ma cosa dice o vuol dire l’autore? c’è o non c’è un’«idea»?.

Parlare, senza sapere quello che si vuol dire o, peggio ancora, senza aver niente da dire, è evidente scarsezza di facoltà mentali, quelle istituite in noi dal Creatore, che ci fanno seguire istintivamente le leggi della Logica [Minor], di cui abbiamo dissertato, sia pur molto modestamente per mesi su queste pagine (cit.«Edav»da n. 296 a n. 316). Quindi è indebolimento, anzi assenza di Facoltà mentali, cioè è Idiozia, è stupidità; se «stupido» significa (ivi): «prova di scarsa intelligenza, insulso, senza significato».

Poi, però, il film è anche «magnifico», d’un grande rigore strutturale. Un po’ piú difficile da capire, questo, perché, per capirlo, si suppone una conoscenza non proprio superficiale del linguaggio filmico e della sua storia.

Paolo D’Agostino su «La Repubblica» (15.10.05) ha scritto: «Prendiamo uno dei momenti piú suggestivi ed emozionanti del film di Benigni, quando Attilio, dal capezzale dell’amata moribonda tra i disagi e le emergenze dell’ospedale di Bagdad in guerra, si raccomanda ad Allah, ma con le sole parole di preghiera che conosce, il Padre Nostro. Chi altro avrebbe potuto sostenere credibilmente una scena cosí, senza farsi assediare dall‘enfasi o dalla banalità del ridicolo? (…) Benigni è forse oggi l’unico che un po’ riesce a restituire e riportare in vita l’ingenuità, la semplicità e l’immediatezza del cinema di 70,80 anni fa».

Verso la fine, mentre Vittoria sta tornando a casa, una tigre le si mette in mezzo alla strada e la fissa. Non frequenti e leggerissimi fiocchi di neve, le cadono addosso.

La Tornabuoni in «La Stampa» del 5.10.05, afferma che «il film è candido come la neve, ma aggressivo come la tigre» (non dice molto.!?!).

L’idea centrale del film, diciamo noi per esagerare il suo messaggio, è la stessa de LA VITA È Bella: «bisogna coltivare speranza e fiducia, non arrendersi e non lasciarsi andare nemmeno nelle circostanze piú tragiche.».

D’altra parte, o per altro a­spetto, è vero che già Godard a suo tempo, con LA CINESE, aveva tentato di fare un film senza racconto come pare sia questo; e quanti altri, dopo di lui, (v. Venezia di due o tre anni fa!, l’hanno tentato!); mentre il «racconto» è il «modo filmico di rea­lizzare “la storia (o vicenda)” del film, che attraverso l’idea centrale figurativa (primo passo concreto per passare dal linguaggio concettuale [il soggetto a parole] a quello contornuale, com’è quello filmico, per arrivare a esprimere onestamente e capacemente il «voglio dire che...».

Benigni ha qui incontrato la stessa difficoltà (passare dalla parola all’immagine): dopo aver ben chiarita l’idea (esprimibile verbalmente, cioè concettualmente, col «Voglio dire che…») che si vuole esprimere ha mancato di esprimerla e cominciare a esprimere con le sue immagini.

E tuttavia resta un magnifico film d’amore, stravagante e… quasi… meraviglioso.

Per dire cosa?

Al fondamentale interrogativo, risponde la Aspesi in «La Repubblica» del 5.10.05 con cui concordo: «Un messaggio morale necessario: non perdere mai la speranza, non arrendersi mai agli orrori, (…) e anche pregare, come fa Attilio, recitando ad Allah il Padre Nostro» (bellissimo! sebbene rasente al, ma non, blasfemo).

In conclusione il film è convincente (cfr. valore morale) o è solo titillamento di buona e valida, o meno, emozione? Non voglio, né so, dire di piú. Ma «capolavoro», anche solo filmico, pur non disprezzabile, bensí appena accettabile, non direi! (Nazareno Taddei sj)

 
 
Note

1) È la frase che inizia obbligatoriamente con le parole: «voglio dire che…», completarla con un soggetto e con un predicato (verbale o nominale) e con o senza i complementi di modo e di tempo che si desiderano, per esprimere bene quello che si intende dire con quel film.

È norma accettata e la cui esecuzione ho sempre richiesto ai miei allievi)

2) Mai affrettarsi a esprimere un giudizio su un’opera umana, compresi un film o un libro, senza averlo letto da cima a fondo di «lettura strutturale».

 


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