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COME GLI SCAMPI (KAKRAKI)



Regia: Ilya Demichev
Lettura del film di: Adelio Cola
Titolo del film: COME GLI SCAMPI
Titolo originale: KAKRAKI
Nazione: RUSSIA
Anno: 2009
Presentato: 66. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 2009 - Settimana della critica

Il film si presenta come una parabola morale e corrisponde ad uno dei numerosi casi nei quali si verifica la previsione del proverbio popolare: «Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi».

Il protagonista, uomo sposato e con figlio adolescente, è abbastanza soddisfatto, anche se non troppo, della sua famiglia. Moglie affettuosa e premurosa, figlio obbediente e sottomesso. Capricci e sotterfugi in casa non ce ne sono. Egli è alto funzionario presso il ministero russo con l’incarico di vagliare e concedere, se tutto è in regola, le licenze edilizie. L’incarico è importante e, come spesso accade anche nei governi migliori!, può innescare gelosie e generare tentazioni a proprio vantaggio. E così succede al nostro, che, non sembra ma che fondamentalmente è probo ma ingenuo. Un grande impresario lo corrompe con una mazzetta gonfia di rubli. Inizialmente resiste ma «al color di quel metallo» (ricordate il Barbiere di Siviglia?) i suoi buoni propositi capitolano e firma la licenza anche se fuori legge. Per sua immaturità prende una cotta per una cinesina, commessa di negozio e per lei è disposto a mollare tutto, famiglia e lavoro, e andare lontano con quell’angelo caduto dal cielo… che ha un problema! La mamma è gravemente ammalata e abbisogna d’una operazione costosissima. Egli promette di consegnarle i soldi necessari e sa come fare per averli. Lo spettatore a questo punto prevede che la strada maestra per raggiungere lo scopo sarà quella di sfruttare l’impresario che già una prima volta era caduto nella rete. Ora gli tira fuori pretesti di leggi burocratiche, per superare le quali ci vogliono migliaia di rubli. Intanto lo spettatore forse dubita della cinesina (Vuoi vedere che la finta ingenua lo gioca?). No. L’ingenuo, caso mai, è lui. Convince l’impresario a portargli la nuova mazzetta ma non prevede che con lui, per coglierlo con le mani nel sacco, arriva anche la finanza che lo arresta e lo fa rinchiudere in prigione. La cinesina gli porta la notizia che la mamma è stata riconosciuta affetta da tumore benigno e già operata. Che peccato, per lui e per i suoi svaniti sogni di rifarsi una vita insieme lontano e sconosciuto. In una delle visite al padre, il figlio gli fa conoscere la fidanzata, che, oh sorpresa per lo spettatore, ma non troppo… sorprendente!, è proprio la sua cinesina. Il modo di ammazzare il tempo in prigione l’ha trovato: si dedica alla lettura delle opere di Gogol. Ne Il cappotto il protagonista, dopo aver farfugliato parole sconnesse incomprensibili, muore. I carcerieri trovano il lettore morto con il libro di Gogol in mano. Viene dichiarata causa del decesso l’arresto di circolazione sanguigna. Afferrato per i piedi da una guardia, è trascinato (lo vediamo in croce con la testa penzolante) in un ripostiglio in attesa dell’arrivo dell’autoambulanza.

La morale della storia è chiara per tutti: esce dai fatti più che dai modi di raccontarli. La recitazione è abbastanza professionale, senza eccezionali qualità dimostrate degli interpreti. Il protagonista, pur nella sua bravura nel calarsi in un personaggio difficile dalla doppia vita, recita spesso un tantino sopra le righe, tanto per quanto riguarda la mimica, efficace del resto, quanto nella pronuncia del testo, che noi ascoltiamo nella lingua russa originale. La corruzione dei pubblici funzionari è bollata come la peste che impedisce il vero progresso al paese, ma tale epidemia non rimane circoscritta dentro i confini della grande nazione nella quale il film è ambientato. Le caratteristiche connotazioni negative elevano il livello di quella peste a pandemia globale, ed è per quel motivo che il film può considerarsi universale poiché denuncia il male, se pur semplificando un poco troppo causa ed effetti, a spettatori di qualunque nazionalità. Probabilmente nuocciono all’effetto terapeutico che potrebbe esercitare, le evidenti, tali almeno per noi fuori dalla grande Russia contemporanea, esagerazioni, imputabili alla sceneggiatura qua e là sovrabbondante di motivi polemici contro i boss del potere politico (vedi le prime sequenze del film con la riunione dei subalterni del capo che esige rispetto e riverenza con modi dittatoriali e goffi che lo fanno cadere nel ridicolo) e di ricerche spettacolari che vorrebbero essere di carattere comico esilarante. La scena finale del trascinamento del cadavere sembra, anche in considerazione del contesto, molto inverosimile.

La colonna sonora è impreziosita da motivi popolari di carattere corale secondo l’antica tradizione russa.

L’ambientazione domestica, degli uffici pubblici e degli istituti di pena non si distingue dalle solite normali location.

La direzione dei personaggi, frequentemente ripresi in primo piano per evidenziarne la psicologia, è sicura e dinisrea interesse preferenziale, quando l’occasione è propizia, per le scene d’insieme, gruppi di impiegati, ad esempio, e formazioni folkloristiche.

Notiamo infine che il regista trentunenne presente e applaudito in sala ha presentato il suo primo lungometraggio. (Adelio Cola)

 


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