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I LOVE YOU



Regia: Marco Ferreri
Lettura del film di: Olinto Brugnoli
Edav N: 145 - 1987
Titolo del film: I LOVE YOU
Cast: regia: Marco Ferreri - sogg.: Françoise Penzer - fotogr.: William Lubtchansky - mus.: Jean Pierre Ruh - mont.: Ruggiero Mastroianni - interpr. princ.: Christophe Lambert (Michel), Eddy Mitchell (Yves), Flora Barillaro (Maria), Agnés Soral (Hélène), Anèmone (Barbara), Marc Berman (Pierre), Fabrice Dumeur (Marcel), Jean Reno (Dentista), Jeanne Marine (La prostituèe), Maurice Donadoni (Georges) - colore - durata: 100' (m. 2640) - VM 14 - coproduz.: A.F.C./23 GIUGNO/U.G.C./FILM A2/TOP 1 con la partecipazione del Ministero della Cultura - origine: ITALIA/FRANCIA, 1986 - distribuz.: Columbia Pictures Italia.
Nazione: ITALIA, FRANCIA
Anno: 1986

Il gusto del paradosso e la volontà (o la voglia) di stupire e di sconvolgere gli schemi mentali dello spettatore medio hanno molto spesso caratterizzato l'opera di Marco Ferreri, soprattutto quella che segna l'inizio della sua carriera e in cui è particolarmente evidente l'influsso di uno degli scrittori piú vivaci e spregiudicati della Castiglia, Rafaèl Azcona, collaboratore prezioso di numerosi film di Bunuel. In seguito, la stanca ripetizione di certi temi, legati, pur con leggere varianti, ai ruoli della donna e del maschio nella società dei consumi, aveva in parte spento, forse per il preponderante interesse nei confronti dei contenuti, l'originalità, l'ironia, l'umor nero che costituivano gli elementi piú tipici e personali del regista milanese.

Con I LOVE YOU, Ferreri sembra recuperare buona parte del suo bagaglio culturale e un respiro piú universale, seppur sempre legato strettamente alla contemporaneità e ad una visione radicalmente pessimistica del mondo e dell'esistenza umana.

 

La vicenda. Michel, giovane e bello, vive in una metropoli ultramoderna in cui sembra non esistere piú spazio per i rapporti interpersonali, magari difficili, ma autentici.

Lo vediamo, sin dall'inizio, separarsi dalla sua compagna (moglie?), a causa della sua incapacità ad accettare un figlio da lei, senza troppi drammi o preoccupazioni. Michel vive alla giornata fregandosene un po' di tutto. Snobba le donne che cadono ai suoi piedi, preferendo alla loro compagnia quella di una fauna umana che, come lui, abita in uno squallido condominio di periferia. Sembra amare solo le sue cose e le sue abitudini: la televisione, la moto, la giacca sgargiante.

Un giorno, casualmente, trova per terra un portachiavi un po' speciale. È un portachiavi elettronico a forma di testina di donna che risponde al suo fischio con un accatticante «I love you». È una specie di colpo di fulmine. Michel s'innamora gradualmente del portachiavi: lo presenta agli amici, lo custodisce con cura, lo vezzeggia, arriva a «fare l'amore» con lui, gli fa delle scenate di gelosia quando questo risponde ai fischi altrui.

Capita però che, in seguito ad una banale caduta, Michel perde un dente e non sia piú in grado di fischiare. Per lui è un dramma. Per ottenere le dolci paroline del suo «amore» è costretto a ricorrere ad un organino, ma senza trarne alcuna gratificazione. Chiede aiuto ad un amico (anche lui innamorato di un portachiavi) ma invano; va con una ragazza e le chiede di imitarne la voce; si fa fare una protesi, ma inutilmente. Disperato per la sua situazione ed esasperato per i continui «tradimenti» della sua «partner», che arriva perfino a rispondere ad una cantante televisiva, Michel prende una decisione definitiva. Prendendo spunto da Glauco, il protagonista del film (che si sta proiettando alla televisione) DILLINGER È MORTO, Michel «uccide» la sua testina elettronica. E, come Glauco andava verso il mare e riusciva a imbarcarsi su un grosso yacht in partenza per Tahiti, cosí anche Michel si butta con la moto in mare e tenta di richiamare l'attenzione dell'equipaggio di un'imbarcazione simile alla precedente. Ma invano.

Il racconto si sviluppa in modo lineare attraverso una serie di piccoli nuclei narrativi che danno vita a due grossi filoni strutturali in funzione tematica: il filone del protagonista, Michel, con la sua paradossale storia d'amore con il portachiavi e con quel certo tipo di conclusione, e il filone del mondo in cui Michel si trova inserito e di cui è espressione.

IL MONDO DI MICHEL. Già le prime immagini ci immettono in un contesto socio-culturale caratterizzato dalla solitudine, dal vuoto interiore, dall'alienazione e dall'estraniamento piú radicali. Tutto ciò trova efficace espressione in tre ordini di fattori che rappresentano altrettanti sottofiloni strutturali: quello urbanistico-scenografico, quello della televisione e quello della gente che anima il mondo del protagonista.

a) La prima immagine del film rappresenta una strada a due corsie, interrotta e deserta, quasi sospesa surrealisticamente nel vuoto e circondata da imponenti anonimi grattacieli. Una canzone rock ne sottolinea l'aspetto di contemporaneità e di modernità, ma anche di desolazione e di vuoto.

È un'immagine che ritorna piú volte durante lo svolgimento del film; sembra essere il luogo privilegiato da Michel, il suo rifugio; diventa ben presto il simbolo del vuoto della sua situazione esistenziale. Ma accanto a questa immagine, tante altre intervengono a connotare con toni drammatici l'artificialità di una precisa condizione umana. Si pensi alla desolazione di quella specie di cortile in cui si trova l'abitazione di Michel; a quella sorta di magazzino e di scantinato che ne costituiscono l'ingresso; al capannone-discoteca, squallido ritrovo di un'umanità alla deriva reso ancor piú allucinante dalla presenza di enormi mostri dipinti alle pareti; all'incombenza minacciosa dei grattacieli che di notte brillano di luce sinistra; alla sordida presenza di certi monumenti e all'ottusa espressione della tigre di gomma nel padiglione dove Michel cerca un palliativo al suo portachiavi; al disordine che regna nell'appartamento di Michel, pieno di oggetti artificiali (il bambolotto, l'enorme maschera) e in cui perfino i mattoni sono dipinti ad esprimere la perdita di naturalità e di genuinità; al gioco figurativo della ringhiera nella casa di Pierre, che sembra avviluppare Michel che sta salendo dall'amico, ecc.

b) La televisione è una presenza invadente nella vita di Michel e del suo piú intimo amico, Yves. È accesa in permanenza e, con la varietà dei suoi programmi d'evasione, sembra costituire il centro d'attenzione piú importante della loro giornata. Non è un caso, per es., che all'inizio Michel sia piú attento alle immagini televisive (la ballerina brasiliana che risulta essere un uomo) che alla sua compagna che è venuta per la separazione. Giocando col telecomando è possibile avere ogni sorta di immagini, da quelle drammatiche a quelle d'evasione a quelle oscene. Proprio per questo motivo, la televisione è diventata indispensabile nella vita di Michel e Yves. È un tentativo di riempire il vuoto interiore ricorrendo a questa grande fabbrica di sogni. Nascono cosí i «fantasmi notturni» (erotici) che animano le notti di Yves. Ed è con la complicità della televisione che Michel riesce a «far l'amore» col suo portachiavi, cosí come è ancora la televisione che gli suggerisce di farla finita con il suo amore e di orientarsi verso altri piú allettanti sogni.

c) I personaggi che ruotano intorno a Michel costituiscono una fauna di disadattati presi dai problemi quotidiani o proiettati in qualche sogno impossibile. È il caso di Yves, disoccupato da tre anni che vive alla giornata con piccoli espedienti, approfittando della generosità di Michel, e che ogni mattina esce con la speranza di trovare un lavoro rimanendo regolarmente deluso. Anche lui vive di sogni. Sfortunato cronico, viene snobbato dalle donne, gli vengono tagliati i fili della luce e alla fine tenta il suicidio, convinto com'è che «vivere cosí non è vivere».

È il caso di Pierre, il nevrotico giovanotto che vuole andare in Giappone in treno e che, come Michel, si è «fidanzato» con un portachiavi a forma di donna (di cui ha fatto fare il ritratto) e al quale cerca di rimanere scrupolosamente fedele.

È il caso delle varie donne, piú o meno spasimanti di Michel, che vanno elemosinando un po' d'amore, perennemente inquiete e insoddisfatte.

Si potrebbe ancora accennare, per completare il quadro, alla presenza dei ragazzini, appartenenti a varie razze (a testimonianza di un cosmopolitismo caotico e di uno sradicamento culturale) e intenti alle cose piú artificiali o strane (il computer e il biberon al maialino).

MICHEL. Le significazioni di questo filone portante (è quello piú strettamente legato alla vicenda) nascono da due elementi fondamentali: l'identità di Michel e il significato dei portachiavi.

Per quanto riguarda il primo punto, si può osservare come Michel sia completamente immerso nel mondo sopra descritto, ne sia espressione e, al tempo stesso, vittima. Anche lui, come gli altri, vive alla giornata, senza precisi punti di riferimento, alienato in un mondo alienante, gettato in una quotidanità insulsa e vuota, dalla quale si ripara solo grazie ad una buona dose di menefreghismo e di ironia. Si lascia vivere, tuffandosi nei miti di una società consumistica e tecnocratica che addormenta le coscienze e svilisce gli animi. Ed ecco il portachiavi, con il suo evidente significato metaforico. Michel se ne innamora; sempre piú. Lo corteggia, lo presenta alla gente, lo difende, lo preferisce alle donne, gli fa dei regali (tra cui le batterie, cosí «non morirà mai... non perderà mai la voce»). Il portachiavi diviene cosí simbolo di quel sogno d'amore e di felicità che Michel — nonostante tutto — si porta dentro e al quale non può rinunciare.

Si può dire che, paradossalmente, in un mondo che ha cosificato le persone, una cosa può sostituirsi alle persone e assumere il valore di utopia.

Ma il portachiavi non è tutto. Come si è detto, il suo valore simbolico e, nel momento in cui il sogno che esso rappresenta non si concretizza, viene distrutto. Ma il sogno resta. Dopo aver «ucciso» il suo amore (imitando il Glauco di DILLINGER È MORTO che uccideva la moglie), Michel trasferisce il suo sogno verso qualcosa d'altro. È ancora Glauco a suggerire: la soluzione viene dalla fuga verso l'irrealtà dei Mari del Sud. Ma Glauco ci riusciva, e veniva assunto come cuoco della giovane padrona dello yacht in partenza per Tahiti; Michel non ce la fa: resta solo e sconfitto.

Da sottolineare due momenti particolarmente importanti a livello semiologico: si tratta della sovrimpressione di immagini che si verifica quando Michel «fa l'amore» col portachiavi davanti alla televisione e quando Michel e Yves guardano alla televisione le immagini di DILLINGER È MORTO. Sono momenti chiave in cui l'unico sogno di felicità sembra realizzarsi in due modi diversi: nell'amore per il portachiavi e nella fuga verso una terra di sogno. Il sogno e la realtà sembrano congiungersi (la sovrapposizione), ma illusoriamente. C'è anche un preciso riferimento semantico da rilevare: il confronto Glauco-Michel. Sono due creature di Ferreri, due protagonisti che, con le loro storie, creano significazioni particolari. Ma per Glauco una soluzione (anche se discutibile: la fuga) era ancora possibile; per Michel neanche la fuga è piú possibile. Resta inchiodato in una situazione esistenziale di inautenticità ed ogni suo sogno di felicità viene miseramente a cadere.

Il film (idea centrale) diventa cosí una parabola sulla condizione dell'uomo contemporaneo, che vive in un mondo artificiale e disumanizzante; che — nonostante tutto — coltiva un insopprimibile sogno di felicità; sogno che però si infrange miseramente, lasciandolo in balia di un disagio e di un malessere senza piú speranza.

Dal punto di vista tematico risulta con evidenza il radicale pessimismo di un autore tra i piú discussi e discutibili della cinematografia contemporanea. Pessimismo temperato tuttavia da un'ironia sorniona che sembra essere particolarmente congeniale al regista milanese e che gli consente di mantenere un certo distacco nei confronti dei personaggi e delle storie che racconta. L'idea del film è comunque tematicamente ben espressa, anche se forse non sufficientemente approfondita. Ferreri si limita a constatare il malessere dell'uomo contemporaneo e la sua incapacità di porvi rimedio, ma non è abbastanza preciso nell'indicare le cause o le carenze di valori che sono all'origine di tale malessere. Mancando una precisa diagnosi, non può che mancare l'appropriata terapia, cioè l'indicazione di come è possibile uscire da tale situazione di stallo. O, meglio, si finisce col dire che tale uscita è di fatto impossibile.

Anche sul piano morale, pertanto, non si può che rifiutare le pessimistiche conclusioni del film, che sembrano eludere ogni richiamo ad un atteggiamento di responsabilità e di impegno nella costruzione di un mondo piú umano.

Va comunque apprezzato il ricorso al sogno e all'utopia (sia pure come fuga), non tanto come possibilità (seppur remota) o come indicazione di un itinerario da percorrere, quanto come rivelazione di una miseria reale, come protesta e sospiro di una creatura oppressa.

Cinematograficamente non si può che apprezzare questo «ritorno alle origini» di Marco Ferreri, che ha saputo riscoprire un linguaggio fresco e originale, solo qua e là appesantito da qualche rigurgito ideologico e da qualche posizione pregiudiziale. La struttura filmica, la recitazione, l'uso del sonoro e la disinvoltura dell'impiego delle immagini ottenute con procedimento elettronico che si mescolano con quelle ottenute con procedimento fotografico manifestano l'abilità e il sicuro mestiere di un autore che può non piacere, che può irritare per la compiaciuta sgradevolezza di certe immagini, ma che certamente non può essere ignorato o misconosciuto nel panorama culturale contemporaneo. (Olinto Brugnoli)

 


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