Ciscs


Edav.it



LOGIN ABBONATI

Cerca negli articoli


   
Il portale di studi sulla comunicazione del CiSCS
Centro Internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale
   



Visualizza tutte le notizie:



 

PARTITISMO E CASO MORO


di NAZARENO TADDEI
Edav N: 145 - 1987

I recenti interventi del Card. Martini, arcivescovo di Milano, contro il partitismo e il caso Moro rimesso in questione dall'uscita del film omonimo col divieto di Agnes di presentarlo a «Domenica in» alla RAI sembrano e sono di fatto due cose ben diverse e distanti tra loro. Eppure, nel numero 50 di «Edav», maggio 1978 — otto anni e mezzo fa! — in prima di copertina, pubblicavamo tanto un brevissimo commento all'assassinio di Moro quando un mio articolo dal titolo «La democrazia muore».

Quell'articolo cominciava cosí: «La democrazia in Italia è stata condannata a morte dal partitismo».

Ma già tre anni prima (v. «EDAV», n. 31-32, luglio-ottobre 1975, pag. 507) — 12 anni fa! — avevo scritto che, secondo «il primo articolo della nostra Costituzione (...) “la sovranità appartiene al popolo (...)”. La politica, dunque, la deve fare il popolo. Invece di fatto, oggi, la fanno i partiti e i sindacati; al punto che nessuno riesce a “far politica” in qualche modo, né viene considerato in sede politica, se non è schierato o irregimentato in qualcuno di essi. E ciò è fatto contro la lettera e lo spirito della Costituzione», poiché «le condizioni di eguaglianza [richieste dall'art. 51 della Costituzione] sono sistematicamente e praticamente violate». Vi parlano ancora de «l'uso sistematico della strategia della confusione e della bugia semiologica, il camaleontismo di vario tipo a seconda delle circostanze», di «perdere il proprio tempo nei giochi di corrente e nell'“alchimia delle poltrone”, nell'ascoltare i vari sussurri di eminenze grige e nel tener buoni i vari ambiziosi».

Il card. Martini — all'indomani del Convegno della Chiesa ambrosiana sul tema «farsi prossimo» — esprime analoghi concetti: «I partiti stanno divorando le istituzioni: — riferisco dal «Corriere della Sera» (17.12.86, prima pagina) — tempo “i prossimi vent'anni e il “forse irreversibile” degrado del sistema avrà irrimediabilmente tolto l'ossigeno della democrazia, cioè i giovani (...). “Alleanze occulte e spartizioni sotterranee” producono “situazioni ibride (...) tra menzogne e coperture”».

Quale soluzione, 12 anni fa, io proponevo una «presa di coscienza» in «alternativa “diagonale”», cioè al di là e al di sopra dei partiti. Quale soluzione, oggi, il card. Martini esorta i cattolici, affinché elaborino «una nuova cultura dell'impegno politico».

Quei miei due articoli non avevano avuto molta risonanza; anzi, diciamo pure, nessuna nei mass media e, tranne qualche sospiro con un «Ah, quanto è vero!», penso ben poca anche sul piano pratico. Gli interventi del card. Martini, invece, grazie a Dio, hanno avuto grande risonanza. (Comunque, a parte il peso ben diverso tra i due vecchi compagni di studio [ma le idee valgono per loro stesse e non per chi le esprime], l'aver detto quelle cose 12 anni prima e 8 anni e mezzo fa l'averle messe in relazione col caso Moro fa una certa impressione. Forse le avevo dette troppo presto e quindi fuori tempo; ma almeno non si dirà fuori tempo perché... superato.)

Quando scrivevo l'articolo di otto anni e mezzo fa, Moro non era ancora stato assassinato: lo sarebbe stato 6 giorni dopo. Vi dicevo: «Il partitismo ha dimostrato chiaramente d'aver cambiato la democrazia in un'oligharchia di stampo sociale comunista (...): nel caso Moro, s'è visto chiaramente che il Parlamento, pur convocato spesso in permanenza, è stato ben poco interpellato sul da farsi, tanto che il presidente del Senato ebbe a lamentarsene (...). Quante perplessità e quanti interrogativi nascono nel cittadino cosciente e attento (...). P.e. il blak-out dell'informazione (...): si ha piú che un'impressione ch'esso non dovrebbe servire propriamente a garantire l'esito delle ricerche. Basti considerare: fino a oggi (3 maggio), le ricerche non hanno dato alcun frutto (...); anche i giornali (...) a un dato punto hanno ignorato l'interrogativo di fondo (...): la liberazione diretta, ad opera ovviamente delle forze dell'ordine. Quasi fosse scontata l'impossibilità di questa soluzione; quasi ci fosse una sorta di tabú attorno alla “prigione del popolo” (...). 38 mila uomini (...), 35 mila perquisizioni, 6.700.000 persone controllare (il 12% della popolazione italiana, mentre brigatisti e fiancheggiatori pare non superino il 5%). La cosa è ancor piú strana, se si pensa all'efficienza delle nostre forze dell'ordine quando sono lasciate libere di agire; se si pensa che due sole singole pattuglie hanno liberato recentemente due sequestrati e un solo agente, tutto solo, pur rimettendoci eroicamente la vita, ha permesso il primo arresto in flagrante di un brigatista».

Eppure, la liberazione diretta era la grande aspirazione dell'on. Cossiga, allora infaticabile e angosciato ministro degli Interni, a via Gradoli, «l'arrivo a sirene spiegate di decine di auto della polizia e l'assedio di tutta la zona di centinaia di agenti, carabinieri e finanza mitra alla mano hanno bruciato qualsiasi possibilità di sorprendere i brigatisti al loro ritorno. Si è anche scoperto poi che nel palazzo di via Gradoli le forze di polizia ci erano già andate a fare perquisizioni senza però entrare in quell'appartamento perché nessuno aveva aperto la porta» («Panorama», 2.5.78, pag. 61). Ma «il procuratore della Repubblica s'era opposto, quando gli era stato chiesto di poter sfondare la porta» («Panorama», 8.5.78, pag. 55). E oggi sappiamo (anche il film lo ricorda) che la polizia era arrivata alla vera o almeno ultima prigione — e come aveva fatto? — però se n'era venuta via solo perché, ancora una volta, nessuno aveva risposto al campanello della porta. Possibile?

«E allora la fantasia corre — continuavo in quell'articolo — e gli interrogativi si fanno impellenti nel ricordo di alcuni fatti», che citavo, che ancor oggi conservano il loro peso interrogativo ai quali se ne potrebbero aggiungere altri conosciuti in seguito, come p.e. «le persecuzioni di cui da tempo la figlia di Moro, Maria Fida [quella che, con grande scandalo di molti, ha perdonato ai complici assassini Valerio Morucci e Adriana Faranda (nonostante il successivo pentimento) e che va a trovarli in carcere “cercando di ricostruire un patrimonio umano disperso, lacerato”] di cui è vittima assieme alla famiglia. Il marito licenziato senza ragione poco dopo la morte di Moro, vicini di casa con piccoli dispetti e gesti cattivi le fanno sentire il rancore che portano ha chi ha perdonato (...) automobili che seguono lei e la madre, telefonate di insulti e minacce, o semplicemente silenziose, ma nel cuore della notte» (Enrico Deaglio in «Epoca», 12.12.86). E poi, quel rischio di incriminazione della vedova Moro al processo dei petrolieri!... Per quella famiglia, «la morte di Moro dura, con poche interruzioni, da otto anni e mezzo. Morí nel cuore degli amici e della ragion di Stato, prima ancora di essere ucciso nel bagagliaio di un'automobile. Sciolta e senza eredi la sua corrente politica. Non nata, tra i litigi, una fondazione intestata al suo nome (...); gli interventi de «demorizzazione»: non era poi di questa statura, non era poi quell'uomo cosí retto... (...) In via Fani era stata collocata una statua di Moro, ma un vandalo la danneggiò. Gli inquirenti allora ne decisero il trasloco per le perizie al commissariato di polizia, dove giace tuttora nel deposito dei corpi di reato.» (Enrico Deaglio cit., il quale ricorda che Eleonora Moro e la figlia Agnese, dopo aver testimoniato al processo dei petrolieri, a Torino, attendendo — in perfetta solitudine — il treno per Roma, avevano comprato il biglietto di seconda classe, due panini al prosciutto e una bibita).

Ricordavo ancora (sempre otto anni e mezzo fa) il dr. Mazza, ex-prefetto di Milano — dimessosi per «l'inutilità della mia presenza in relazione alle scelte di politica generale del governo» proprio relativamente alla situazione dell'ordine pubblico — che aveva affermato: «la vicenda dell'onorevole Moro risponde alla logica e ai programmi di centrali internazionali».

«Cosí la democrazia muore» concludevo.

«Molte cose sono cambiate da quei 55 giorni, — continua Enrico Deaglio cit. — Lo Stato italiano ha vinto, non cedendo su Moro, sulla ferocia delle BR (...). Ma quanto spazio ci sia tra la granitica fermezza e la molle trattativa, lo hanno mostrato altri sequestri di persone, di aerei, di navi in ogni parte del mondo. Si disse che per Moro si scontrarono la ragione di Stato e la ragione della famiglia, Antigone e Creonte. Oggi una statua corpo di reato, due panini alla stazione, una censura in televisione sono però ancora il segno di due ragioni che non si sono riconciliate».

Giampaolo Pansa nel suo Carte false, (Rizzoli, 3° ediz., ott. 86, pag. 152): «Forcella scrive: “Non ne [di ‘faziosità politica’] conosco manifestazione piú clamorosa di quella in cui rimase coinvolta la quasi totalità della stampa italiana (e della radio e della televisione) durante i giorni della prigionia di Moro. Tutti a giurare, fin dalla prima sera in cui arrivò la prima lettera, che non ‘era lui’, che si trattava di lettere estorte, o comunque di lettere scritte da un uomo che aveva perduto la capacità di intendere e di volere. E questo soltanto per non indebolire il ‘fronte della fermezza’, cioè la linea politica che, a torto o a ragione, era stata adottata dalle forze della maggioranza governativa (...). Forcella dimentica di specificare, ma sarà pura distrazione, che l'architrave del “fronte della fermezza” era stato in quei giorni il PCI. E dimentica, o non sa, che il dibattito sulle lettere di Moro dal mattatoio brigatista fu, in tutti i giornali, angoscioso, lacerante. Io lo so, e lo ricordo e lo dico. A “Repubblica”, uno dei giornali “della fermezza” (uso con riluttanza questa parola che dà i brividi), nessuno “giurò” fin dalla prima sera “che non era lui”, che non erano lettere di Moro. Nessuno fece poi una scelta per faziosità politica. Nessuno obbedí a veline del governo Andreotti. E nemmeno a veline del PCI che del resto, come Forcella sa bene, non ci furono.»

Ma è anche interessante sapere che Eleonora Moro «alla commissione paramentare d'inchiesta rese una lunga testimonianza che riempie 150 pagine di verbale: vi sono elencati tutti i segni premonitori del sequestro, le segnalazioni rimaste senza parola, le incurie e le dimenticanze dell'inchiesta, la via Gradoli spacciata per il paese di Gradoli. Al processo contro le Brigate rosse depose in un silenzio commosso e spiegò quanto fossero stati ciechi tutti quelli che dissero che le lettere di suo marito non erano vere; raccontò di tutti gli sforzi (ben otto tentativi di mediazione vennero provati da quella casa di Forte Trionfale) e di come questi vennero vanificati da un muro di non volontà. Eppure, esclamò “Mio marito poteva essere salvato, se le cose fossero state fatte con il buon senso di una donna di casa.”» (Enrico Deaglio cit.)

E se il gioco fosse stato quello di far morire Moro moralmente e, visto che non ci si riusciva (cfr. il discorso di Berlinguer la domenica 7 maggio e la decisione della DC di radunare il Consiglio Nazionale del Partito, come Moro aveva chiesto dalla «prigione del popolo», per il giorno 8 maggio), farlo morire fisicamente, evitandone poi la resurrezione?

Nel breve ricorso dell'assassinio, in quella stessa prima pagina di otto anni e mezzo fa, dove c'era il sopracitato mio articolo, si leggeva: «Aldo Moro è stato la prima vittima cruenta della sua politica dell'“equidistanza”. Strano (o sintomatico?) che nelle tonnellate di parole dei due ultimi mesi, questa non sia mai apparsa esplicitamente o la si sia addirittura confusa con quella di “maggioranza parlamentare” o di “unità democratica”».

Della realtà che sta dietro a tutti questi testi, che sono forse la vera realtà del caso Moro, pare che il film abbia tenuto troppo conto. 

 


RSSFacebookGoogleYoutubeSkypeEmail

Iscriviti alla newsletter
sarai aggiornato sulle nostre attività
Nome
E-mail

È il momento del
5 per millle... sostienici!!!

C.F. 02447530581


SPECIALE ASTA
Vendiamo all'asta
due fantastici cimeli della
storia del cinema.

Un'occasione imperdibile per tutti gli appassionati e i collezionisti


"La moviola"
"La poltrona di Fellini"

   
   
    Direzione: Via Giolitti 208, 00185 Roma (RM) - Tel e Fax 06/7027212
Redazione e Amministrazione: Via XX Settembre 79, 19121 La Spezia (SP) - Tel e Fax 0187/778147
C.F. 02447530581 - email: ciscs@edav.it