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LA MIA AFRICA



Regia: Sidney Pollack
Lettura del film di: Adriana Brugnoli
Edav N: 139 - 1986
Titolo del film: LA MIA AFRICA
Titolo originale: OUT OF AFRICA
Cast: regia: Sidney Pollack - scenegg.: Kurt Luedtke, basato su «La mia Africa», «Ombre sull'erba», «Letters from Africa» di Isak Dinesen; «Silence will speak», di Errol Trzebinski; «lsak Dinesen: la vita di Karen Blixen» di Judith Thurman - fotogr.: David Watkin - cost.: Milena Canonero - mus.: John Barry- mont.: Fredric Steinkamp, William Steinkamp, Pembroke Herring, Sheldon Kahn - interpr. princ.: Robert Redford (Denys), Meryl Streep (Karen), Klaus Maria Brandauer (Bror), Michael Kitchen (Berkeley), Malick Bowens (Farah), Michael Gough (Delamere), Suzanna Hamilton (Felicity), Rachel Kempson (Lady Belfield), Graham Crowden (Lord Belfield), Leslie Phillips (Sir Joseph), Shane Rimmer (Belknap) - colore - durata: 150' (m. 4500) - prodotto da: Sidt~ey Pollack per Mirage Enterprises - orig.: USA, 1985 - distrib.: Uip
Sceneggiatura: Kurt Luedtke
Nazione: USA
Anno: 1985

Della baronessa danese Karen Blixen (1885-1962), scrittrice amata e conosciuta per la sua vita avventurosa, ma soprattutto per la grande passione che la legò all'Africa, uscí nel 1937 un'autobiografia firmata con lo pseudonimo di Isak Dinesen. Attingendo da questo testo, da altre due opere della scrittice danese («Ombre sull'erba» e l'epistolario «Lettres from Africa») e dai saggi di Judith Thurman e Errol Trzebinski, lo sceneggiatore Kurt Luedtke e il regista Sidney Pollak hanno ricostruito per il grande schermo i diciott'anni (dal 1913 al 1931) che Karen trascorse nel Kenia.

La vasta eco che ha accompagnato il lancio del film (11 nominations all'Oscar, 7 statuette vinte di fatto: migliore film, migliore regia, migliore sceneggiatura non originale, migliore fotografia, miglior sonoro, migliore direzione artistica, migliore colonna sonora originale) è frutto solo in parte della fattura piú che dignitosa di quest'opera hollywoodiana.

Grande merito va infatti alla sapiente mastodontica operazione pubblicitaria con cui il film è stato presentato, prima in America — di fronte ad un nutrito numero di miliardari che per il biglietto hanno pagato cifre astronomiche (poi destinate ad un'istituzione benefica statunitense) — quindi in Europa, al Festival di Berlino.

 

La vicenda. Respinta dall'amante, il barone Hahns Blixen, e ansiosa di andarsene «dappertutto», purché sia lontano dalla sua terra, la ricchissima ereditiera danese Karen Dinesen contratta il matrimonio con l'ambiguo fratello di Hahns, Bror, barattando il proprio denaro con il titolo di baronessa, e parte per il Kenia. Una didascalia informa che siamo nel 1913. Karen si sposa fra suoni di cornamuse in una ricreata atmosfera inglese e raggiunge con Bror la fattoria acquistata ai piedi delle verdi colline Ngong e accudita da una schiera di servitori kikuyu.

I dissapori sorgono molto presto fra i due coniugi, che dissentono innanzitutto sull'attività economica da intraprendere e si rinfacciano subito dopo soldi, titoli, e reciproco disinteresse. Bror se ne va a caccia, per tornare soltanto «prima delle grandi piogge»; Karen reagisce prendendo pieno possesso della piantagione di caffè voluta dal marito e informandosi sulle possibilità del raccolto, cercando manodopera presso il grande capo dei Kikuyu e improvvisandosi infermiera e dispensatrice di consigli per la popolazione indigena; infine, costruèndosi in piena Africa un piccolo regno su misura per le proprie aristocratiche raffinatezze: cristallerie e «limoges», camerieri in guanti bianchi e un inseparabile levriero. È soltanto la prima di molte, lunghe solitudini; il primo di molti addii a cui rifiuta di abituarsi e che non la renderanno meno tenace, coraggiosa, intraprendente. Bror partirà nuovamente poco dopo per una spedizione al confine, decisa sull'eco della guerra scoppiata in Europa, e non servirà che Karen lo raggiunga al seguito di una carovana di rifornimenti. Entrambi dovranno ammettere che «le cose non sono andate come avevano sperato». L'amarezza del fallimento si acuisce quando Karen scopre di aver contratto dal marito la sifilide, e se ne torna in Europa per curarsi: una lunga battaglia personale, che la riporta a contatto con il proprio mondo solo per farla sentire estranea in Danimarca mentre cerca di ricordare i colori dell'Africa, ma che l'aiuta anche a ritrovare sé stessa e a capire che l'Africa sarà di nuovo la sua mèta. Vi torna infatti, clinicamente guarita ma senza alcuna possibilità di diventare madre, e, dopo il manifesto tradimento del marito, lo allontana definitivamente dalla propria casa.

Durante i primi anni di permanenza in Kenia Karen aveva conosciuto Denys Finch-Hatton, cacciatore e pioniere, ed il suo amico Berkeley Cole. Con loro aveva avuto pochi incontri sporadici d'amicizia intensa e serena. Con Denys, particolarmente, era entrata in sintonia grazie soprattutto ad una sorprendente capacità di quest'ultimo di trovarsi accanto a lei nei momenti piú opportuni e di comprenderne emozioni, tensioni, fantasie. Lui le aveva insegnato come mantenere il sangue freddo di fronte ad una imprevedibile leonessa; lui le aveva regalato una bussola perché potesse orientarsi e Karen aveva inteso quel dono come un segno per la propria vita («Forse lui capirà, al contrario di me, che la terra è stata fatta rotonda perché non potessimo guardare troppo lontano»); ancora lui aveva intuito la sua straordinaria capacità di narrare, e l'aveva ascoltata a lungo, incantato, nel fluire della fantasia; lui, infine, I'aveva rimproverata di essere troppo attaccata alle cose, di chiedere troppo ad una vita nella quale «siamo solo di passaggio».

Ora — dopo la separazione da Bror e il successivo divorzio — il legame con Denys si rafforza, diventa il grande amoré della sua vita, un abbandono che trasfigura ciò che la circonda, che la separa da tutto il resto del mondo: dalla sua piantagione, dalla scuola che aveva voluto per i Kikuyu, dalle cose con cui aveva cercato di riempire il vuoto di relazioni e di affetto.

Legato a paesaggi originari e lontani dall'uomo, Denys le fa conoscere un'Africa ancora vergine, grandiosa e sconfinata, ma anche arcadica e raccolta; una terra per la quale la musica di Mozart, suonata da un grammofono in mezzo alla foresta, non può che costituire l'unico armonioso compendio. Sa che lei capirà. Le parla delle luminose notti africane «in cui si vede piú lontano e le stesse sono piú lucenti», dei Masai fieri e irriducibili, che «sembrano gli unici a non curarsi dei bianchi, e cio finirà per estinguerli»; la conduce con l'aereo che ha appena imparato a guidare sopra la savana, la foresta, i laghi. Nel fluire dei ricordi questo sarà per Karen il momento piú pieno del suo amore per Denys e per l'Africa: «Mi diede un dono incredibile: uno sguardo sul mondo attraverso l'occhio di Dio».

Denys l'ama con intensità e dolcezza, ma è un essere libero, geloso della propria indipendenza, che appartiene solo a sé stesso e non vuole per sé una vita imposta dagli altri. Si stabilisce da Karen, ma parte e ritorna con scadenze imprevedibili, abituandola ad altri numerosi addii: mai definitivi, ma sempre struggenti perché per Karen, che anela a qualcosa da possedere veramente, sono segno di provvisorietà e d'incertezza.

In seguito ad uno scontro verbale, durante il quale emergono con forza queste due inconciliabili posiziòni, Karen è di nuovo sola.

Tutto ciò a cui s'era aggrappata sembra crollarle addosso; una notte il raccolto s'incendia; il lavoro di anni è perduto.

Senza denaro, senza alcuna possibilità di riportare la sua tenuta al primitivo splendore, senza piú affetti né legami, Karen cerca disperatamente un pezzo di terra per i «suoi», Kikuyu, prima di tornare in Danimarca. Denys ritorna da lei, le fa capire che non ci saranno piú addii, che non ha piú voglia di vivere da solo; le promette di aiutarla a sopportare «qualunque cosa». Ma si schianta con l'aereo il giorno in cui dovrebbe raggiungerla per sempre.

«...L'anima di Denys... ci ha portato tanta gioia, e noi l'abbiamo tanto amato. Non è mai stato nostro, non è mai stato mio»: cosí Karen conclude la preghiera funebre sulla tomba di Deny Finch-Hatton, situata su un terrazzo che domina la pianura e su cui, quasi nel pieno rispetto dello spirito audace e libero del cacciatore bianco, andrà da quel momento a sostare una coppia di leoni.

Una didascalia conclusiva avverte che Karen Blixen, ripartita per la Danimerca nel 1931, non sarebbe mai piú tornata in Africa.

Il racconto cinematografjco si configura come un lungo, ininterrotto flashback, in cui si raccolgono e trovano ordine cronologico tutti quei ricordi che affiorano liberamente nella mente di una Karen Blixen anziana, malata e sola nella sua camera di Danimarca.

Questo flash-back — introdotto e concluso da alcune immagini appena accennate di lei in penombra, a letto e allo scrittoio — appare scandito da due brevi momenti iniziali che giustificano narrativamente il grosso corpo centrale:

1) Una serie di immagini sfocate o in controluce scorre sullo schermo senza apparente nesso logico, commentata da una voce fuori campo che pronuncia frasi slegate relative a Denys, ma ad un certo punto avverte la necessità di procedere con piú calma e ordine.

Si tratta di un breve prologo che ha lo scopo di sintetizzare tutto il materiale narrativo seguente e che dà, al tempo stesso, una prima semplice chiave di lettura: si tratta soltanto di ricordi che, in quanto tali, non hanno alcuna pretesa di sistematicità; ma sono ancora profondamente vividi, pregni di sensazioni e di emozioni, ed hanno perciò il pregio dell'immediatezza, del calore, dell'intensità. In questo senso il titolo originale «Out of Africa» (lett.: «Fuori dall'Africa») rispecchia piú fedelmente il carattere del ricordo che ripercorre e ricrea una realtà quando ormai le si è lontani.

2) Un brusco passaggio narrativo — reso dal cambiamento del ritmo e dei colori — ci porta a questo punto in Danimarca, soltanto per spiegare il perché del lungo viaggio di Karen in Africa: a spiegarla è unicamente un puro desiderio d'evasione, di cambiamento; la consapevolezza di non avere altra possibilità per uscire dalla monotonia e dalla delusione del quotidiano che «vedere un po' di mondo».

Si comprende perciò immediatamente come non si possa né ci si debba aspettare dalla protagonista alcuna presa di posizione sul piano sociale o politico circa la condizione dell'Africa orientale inglese, ma soltanto un coinvolgimento sul piano personale ed emotivo che la trasforma interiormente senza avere ripercussioni sull'esterno.

Il corpo centrale del film è dedicato interamente ai diciott'anni trascorsi da Karen in Africa.

Anche la pausa dovuta al ritorno in patria per curare la sifilide è resa in modo da rispettare una continuità d'ambiente: soltanto la voce fuori campo racconta del lungo viaggio, mentre le immagini si soffermano sulla vita che continua nella fattoria di Karen.

Si può dividere questa «avventura africana» in due grosse parti: quella relativa ai primi anni, all'esperienza deludente dell'insolito matrimonio con Bror fino alla separazione, alla solitudine e alla riorganizzazione della vita fra la piantagione e la scuola: e quella, intensa ed esaltante, del rapporto con Denys Finch-Hatton, fino alla morte di lui e al desolato ritorno.

All'interno di queste due parti il racconto delinea la figura della protagonista mettendola in relazione con realtà diverse, da ciascuna delle quali emerge un aspetto della sua personalità: 

A) Karen e la natura africana 

Sembra, in un primo momento, che Karen voglia costruirsi un'isola eccentrica a dispetto di ciò che la circonda: cristalli e tende di pizzo, tovaglie ricamate e argenterie. Ma non avviene nessuna violazione; Karen è legata a ciò che le appartiene, ma sa privarsene per affrontare disagevoli marce e dormire in una tenda; è nella sua natura saper creare armonia fra sé stessa e il paesaggio, esserne parte pur mantenendo una sorta di elegante e aristocratico distacco.

Il suo atteggiamento di fronte alla vastità degli spazi, alla purezza delle albe e dei tramonti, alle insidie della foresta, è di disponibilità e sintonia. Con l'arrivo di Denys Finch-Hatton è anche di sereno, incantato stupore; ma diventa soprattutto la sensazione di aver sfiorato l'infinito e l'assoluto: «Mi diede un dono incredibile: uno sguardo sul mondo attraverso l'occio di Dio».

È questa «la mia Africa», I'Africa di Karen Bixen: il sentimento della pienezza di vita, della contemplazione. 

B) Karen e gli Africani 

Di fronte ai servitori kikuyu o ai guerrieri masai, la raffinatezza di Karen o il suo vezzo di dirsi «baronessa» non pesano come elementi di distinzione sociale. Karen si muove in mezzo a loro come in casa propria; li consiglia, li aiuta, lotta per la loro sicurezza e stabilità. Anche in questo caso, però, non si tratta di una progressiva presa di coscienza, di una conquista interiore, ma di un dato di fatto, molto naturale e spontaneo. 

C) Karen e la colonia inglese 

Tutto ciò che si riferisce alla vita o alle chiacchiere dei bianchi nella colonia britannica sfiora appena Karen, e diventa, anche nel racconto cinematografico, un accenno lieve e quasi privo di significato: è un'altra vita, un'altra Africa che sta lentamente avanzando: le tracce di safari dappertutto, una folla di stranieri che si assiepa nella capitale in cerca d'avvenure, le autorità cui non sfiora la mente che le «terre della corona» appartengano in primo luogo alle popolazioni indigene: sono problemi che si affacciano alla storia, che saranno di estrema gravità, ma che ancora scompaiono di fronte alle suggestioni degli spazi liberi e incontaminati . 

D) Karen e Denys Finch-Hatton

Il grande amore di Karen Blixen dà senso e valore a tutti i momenti della sua vita: è la rivelazione che realizza completamente la sua disponibilità, il suo stupore, la sua naturalezza, il suo coraggio, la sua incoscienza. L'amore per Denys trasforma il suo essere in sintonia con la natura in un senso profondo dell'infinito; traduce la sua disponibilità in comprensione per la gente africana; le infonde la forza di combattere per salvare anche ciò che non le appartiene; le dà il coraggio di ricominciare sempre daccapo, di mettersi continuamente alla prova, di «sopportare qualunque cosa». Per questo — in certi momenti — I'amore per Denys e l'amore per l'Africa sono difficilmente distinguibili, sembrano confondersi, e il secondo riceve forza e giustificazione dal primo.

Tutti questi «come narrativi» sono resi attraverso dei «come semiologici» ricorrenti e abbastanza facilmente raggruppabili:

1) un ritmo discontinuo delle sequenze e dell inquadrature, quasi a voler rendere il fluire spontaneo e disordinato dei ricordi;

2) I'uso ricorrente della voce fuori campo, che raccorda fra loro gli episodi, sottolinea il ripetersi delle azioni, dà senso a piccoli gesti o a momenti di vita, ma soprattutto ripete lo struggimento per il passato: «Avevo una fattoria in Africa...»;

3) la scelta di una colonna sonora piuttosto sentimentale — legata quasi sempre alle lunghe panoramiche sul paesaggio africano — e della musica di Mozart, che a quello stesso paesaggio conferisce maggiore solennità;              

4) I'uso di colori forti, decisi, luminosi, e di effetti in controluce che impreziosiscono l'immagine a volte al limite del calligrafismo;

5) la lunga durata di immagini (che diventano quasi «immagini fisse») e di inquadrature relative alla foresta, ai laghi, alla savana, alla prateria, e a Karen e Denys immersi nella natura.

A questo punto si può formulare in questo modo l'idea centrale del film: ricorstruire l'esperienza africana e i ricordi di Karen Blixen — relativi al suo grande amore per una terra e per un uomo — non in funzione cronologica e oggettiva, bensí in relazione ai sentimenti e alle emozioni che hanno segnato la sua vita.

La valutazione dell'intera opera rivela come alcune manchevolezze offuschino l'unità e la coerenza del racconto.

Tematicamente, si può notare come un film di questo genere in definitiva non dica molto. La vita di Karen Blixen, scrittrice famosa ma non certo popolare, è stata intensa e drammatica, ma non al punto da rappresentare un esempio o una possibilità di confronto. Il film si mantiene sul piano del personale e niente di quanto viene narrato è universalizzabile.

Ciò che interessa all'autore è parlare dei sentimenti di una persona, comunicarli attraverso le immagini. Ma è un'operazione pericolosa: la «cosa rappresentata» in questo film — cioè l'emozione — è per sua natura intima e personale; sarebbe necessario che la «rappresentazione» non fosse a sua volta giocata sull'emotività, per non sovrapporre emozione a emozione e togliere in tal modo sostanza tematica al film.

Ci pare che Sidney Pollack abbia corso, invece, questo rischio.

Cinematograficamente, infatti, il film ricorre a numerosi espedienti che, qua e là, trasformano il sentimento in sentimentalismo: troppe riprese dalI'alto, troppe panoramiche, troppe figure stagliate in controluce sembrano piú immagini preziose di dépliants turistici che immagini del cuore.

Alcuni passagi narrativi rasentano l'ingenuità (Karen e Denys che arrivano sulla spiaggia in aereo e fanno il bagno insieme) o la poca credibilità (Denys che, dopo aver affermato con forza la propria indipendenza, ritorna improvvisamente per dire a Karen che non ha piú voglia di vivere solo). L'uso della musica, che vorrebbe trasformare in canto il ricordo, appare invece soprattutto una sottolineatura spettacolare.

Quel ritmo discontinuo che potrebbe voler rendere il fluire dei ricordi appare in alcuni momenti piú un vuoto d'ispirazione e un'assenza di armonia, che cede il passo ad alcune lungaggini non certo essenziali né alla narrazione né alla tematica.

Resta invece da sottolineare positivamente la splendida interpretazione, soprattutto di Meryl Streep, che sa cogliere con sensibilità e intensità il piú piccolo moto del cuore.

Moralmente va dato atto al film di essere uno spettacolo pregevole e pulito che — pur non dicendo molto — va sottolineato per l'eleganza e la raffinatezza. Può essere consolante — dopo aver visto schiere di scalmanati assalire le sale dove proiettavano Rambo — vedere lunghe colonne composte anche per un film di sentimenti e di atmosfere. (Adriana e Olinto Brugnoli)

 


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