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PLENTY



Regia: Fred Schepisi
Lettura del film di: Olinto Brugnoli
Edav N: 137-8 - 1986
Titolo del film: PLENTY
Titolo originale: PLENTY
Cast: regia: Fred Schepisi - scenegg.: David Hare (tratto dal suo testo teatrale) - fotogr.: lan Baker - mus.: Bruce Smeaton - scenogro Richard MacDonald - mont.: Peter Honess - cost.: Mary Selway - interpr. princ.: Meryl Streep (Susan Traherne), Charles Dance (Raymond Brock), Tracey Ullman (Alice Park), John Gielgud (Sir Leonard Darwing), Sting (Mick), lan McKellen (Sir Andrew Charleson), Sam Neill (Lazar) - colore - durata: 124' (m. 3357) - produz.: Edward R. Pressman e Joseph Papp per la Thorn Emi Screen Entertainment & Rko Pictures presentata da La Films Rover International - origine: USA, 1985 - distrib.: CIDIF.
Sceneggiatura: David Hare (tratto dal suo testo teatrale)
Nazione: USA
Anno: 1985

Opera dignitosa e interessante sotto il profilo cinematografico, per la dlsinvoltura narrativa e strutturale, per l'interpretazione ad alto livello e per la capacita di ricreare ambienti e atmosfere espressivamente convincenti, non e altrettanto precisa nell'individuare e nel promuovere quei valori che possono garantire alla vita umana dignita, pienezza e «abbondanza».

 

La vicenda prende il via in Francia durante la seconda guerra mondiale. L'inglese Susan fa la staffetta per i servizi segreti britannici e lavora a stretto contatto con Tony, un marconista suo amico, che un bel giorno viene arrestato dai Tedeschi e spedito direttamente a Buchenwald. Susan incontra casualmente Lazar, un agente inglese che viene paracadutato per sbaglio nella sua zona, e tra i due nasce un rapporto destinato a lasciare un segno nella vita della giovane donna.

Terminata la guerra, ritroviamo Susan a Bruxelles. Assieme al ritrovato Tony sta facendo un giro per l'Europa per cercare di capire la nuova realtà post-bellica.

Ma Tony muore improvvisamente per un infarto e Susan, fingendosene la vedova, cerca aiuto presso l'ambasciata britannica. Qui conosce Raymond Brok, un diplomatico intelligente e raffinato che comprende la vera realtà della donna, la aiuta e se ne innamora, accettando di fare il «pendolare sui traghetti della Manica», ogni week-end per poterla rivedere.

In Inghilterra, Susan lavora presso un'agenzia marittima e vive in un modesto appartamento, prima da sola, poi in compagnia di Alice, una ragazza tanto disinibita quanto superficiale e frivola, sempre alla ricerca di qualche giovanotto disponibile, e con velleità di scrittrice. Ma Susan cova in cuor suo una profonda insoddisfazione per tutto cio che la circonda: «Sento che devo scappare... vorrei cambiare tutto quanto e non so come farlo».

Rompe il rapporto con Raymond, rifiuta il corteggiamento di un giovanotto dalle intenzioni serie; si rivolge a un giovane che appena conosce per avere da lui un figlio: «Sto cercando un padre... Non voglio impelagarmi in un triste e noioso matrimonio solo per avere un figlio».

Ma dopo diciotto mesi di inutili tentativi, Susan e piú frustrata e disperata che mai e viene ricoverata in una clinica psichiatrica. Raymond, ancora innamorato di lei, la tira fuori, la sposa, le offre amore e benessere.

Dopo alcuni anni ritroviamo Susan, nella sua bella villa, piú caustica, provocatoria e insopportabile che mai. Ancora una volta vorrebbe cambiare. Un periodo trascorso col marito in Giordania è solo una parentesi artificiale (a base di sedativi) di calma e di tranquillità. Ritornata in patria, le sue condizioni psichiche riprendono a peggiorare. Tenta di sfasciare la casa, litiga con il marito; poi se ne va, per sempre.

Dopo un po' di tempo, assistiamo ad un suo fugace rapporto con Lazar che è riuscito a rintracciarla. I sogni e le illusioni dei due ex agenti segreti sono miseramente falliti. Susan e Lazar sono due persone finite. Lui ammette il proprio fallimento: «Mi sono lasciato andare... mi sono arreso». Ora fa parte della piccola borghesia, ha una moglie, lavora per una multinazionale. Ha il coraggio di ammettere: «La odio, la vita che facciamo» Lei sembra svuotata di tutto; ha incominciato a drogarsi; afferma che «I'unica dignità sta nel vivere soli».

Lui se ne va, lasciandola sola e addormentata in una squallida camera vicino al porto. La solitudine è la logica conclusione di una vita e di un'esistenza che non si sono realizzate.

Il racconto cinematografico procede per grossi blocchi narrativi, distanziati tra loro dal punto di vista cronologico, che contrassegnano le tappe di una graduale ma inarrestabile discesa di una giovane vita piena di speranze verso un inferno fatto di vuoto e di disperazione.

Protagonista indiscussa del film è Susan con la sua voglia di vivere pienamente e abbondantemente. Non a caso il titolo originale del film, tradotto letteralmente, significa «abbondanza», «molto». Ed è quel «molto» di vita fatto presagire dall'esperienza, straordinaria e irripetibile, che Susan fa in Francia, tra pericoli e paure, ma vissuta con un'intensità che segna tutta una vita.

L'introduzione, primo grosso blocco narrativo del film, sottolinea appunto questa eccezionale esperienza di guerra, ma soprattutto di vita, di amore; un'esperienza intensa e indimenticabile, piena di sensazioni e di emozioni, ricca di ideali e di speranze. Ma chi ha vissuto la guerra in «quel» modo particolare — pauroso ed esaltante — diventa anche molto esigente nei confronti degli altri; non riesce piú a «sopportare la stupidità», e i luoghi comuni; esige, pretende una vita piena e felice.

Tutto il corpo centrale del film, per contro, sembra eludere e mortificare tale esigenza fino al punto di far precipitare la vita della protagonista nel vuoto dell'insignificanza e della mancanza di senso.

Già il viaggio per l'Europa di Susan e Tony viene descritto dalla protagonista come frutto dell'insoddisfazione provata nei confronti della realtà britannica del dopoguerra. È il tentativo di guardarsi attorno, di capire e di decifrare una realtà che non risponde alle aspettative, di spiegare i rigurgiti di un mondo vecchio che si auspicava finito e superato. L'accenno da parte dell'ambasciatore britannico Darwin alla «nuova Europa» si inserisce in questo contesto di attese che rischiano di venire eluse e aggirate.

Anche il lavoro presso l'agenzia marittima appare agli occhi di Susan noioso, monotono, mortificante. E, a lungo andare, anche il rapporto con Raymond perde di vivezza e di autenticità. Con lui, che appartiene al mondo diplomatico, a quella gente «noiosa, affettata, morta», non è possibile parlare liberamente, chiamare le cose con il loro nome, dire esattamente quello che si pensa. Susan, che ama «qualsiasi cosa che abbia in sé un po' di vita», non può sopportare un rapporto che le si rivela sempre piú asfittico e formale. Anche se — va detto subito — il rifiuto di un mondo fatto di apparenze e di formalità non sembra giustificare (è un appunto di natura tematica che tenterò di sviluppare in seguito) I'acritica accettazione di uno spontaneismo di bassa lega, non esente da volgarità, rappresentato dal vitalismo pruriginoso e godereccio di Alice.

L'inquietudine di Susan viene manifestata anche dal suo girovagare da un lavoro all'altro senza approdare mai a niente di definitivo, dal suo rifiuto di un legame serio e vincolarrte, e in modo particolàre dalla sua decisione di avere un figlio «da sola». Anche in questo frangente non si può non sottolineare l'abnormità della «soluzione» intravista da Susan: I'insofferenza per il piattume consolidato e per l'andazzo conformistico non mi pare possa giustificare una scelta cosí radicale e deviante. La mancata riuscita del suo piano (ma con ogni probabilità le cose non sarebbero andate diversamente anche se l'esito fosse stato diverso) è fonte di una frustrazione cosí forte da portarla al collasso psichico, con il conseguente ricovero in manicomio.

Il matrimonio con Raymond alla lunga migliora la situazione psichica di Susan che ormai non è piú solo inquieta, ma veramente malata. Il benessere economico, gli agi, I'opulenza, unitamente agli sviluppi della politica estera della Gran Bretagna (c'è un preciso riferimento alla crisi di Suez del 1956) sono tutti fattori destabilizzanti il suo fragile equilibrio interiore. Durante un ricevimento in casa Brok, alla presenza dell'ambasciatore e di altri invitati, Susan si esibisce in un «cabaret psichiatrico» in cui spara a zero su tutti, trovando un po' di conforto e di rifugio solo nella memoria, nel ricordo di «quei poveri paracadutisti» che combattevano in Francia contro il nemico, per la creazione di un'Europa migliore.

La parentesi in Giordania è foriera di una pace solo apparente — ottenuta con l'aiuto di sedativi e non frutto di un ritrovato equilibrio — e prelude alla crisi finale che avviene al suo ritorno in Inghilterra. Qui Susan si scontra frontalmente con il capo della diplomazia inglese — quel Sir Andrew che una volta aveva tentato di farle la corte — cui si è rivolta per raccomandare il marito. Il mondo della diplomazia, in cui «gli inglesi sono i migliori del mondo», in cui «il comportamento è tutto» e in cui «nessuno può esprimersi e fare domande» è l'antitesi di ciò cui Susan aspira: qualcosa di autentico, sincero, profondo, pieno di vita e «abbondante». Al culmine di una crisi esistenziale e psichica, Susan reagisce violentemente anche con il marito — che pur, in quel modo, continua ad amare — rompe decisamente con lui e il suo mondo e sceglie la strada del rifiuto e della solitudine.

Il suo vagare per la città è rivelativo dello smarrimento esistenziale di cui è preda; il fugace rapporto con Lazar nella squallida camera sul porto diventa drammatica presa di coscienza delI'incolmabile divario tra gli ideali accarezzati in gioventú e l'attuale situazione di degrado e sancisce definitivamente la sconfitta e il fallimento della sua esistenza (e di quella di Lazar).

Il racconto che fin qui è proceduto linearmente seguendo lo sviluppo cronologico della vicenda nell'arco di piú di vent'anni, crea ora una precisa contrapposizione a livello strutturale con un epilogo quanto mai significativo, quasi didascalico, e ricco di suggestioni poetiche. Sono le immagini solari di una Francia ridente all'indomani della «liberazione»: Susan fa amicizia con un vecchio francese pieno di vita e ricco di umanità. La natura, stupenda, alimenta sogni e speranze: «Gli Inglesi nascondono i loro sentimenti, in tutto il mondo... Ma le cose cambieranno... Siamo cresciuti e miglioreremo il mondo». Poi, di fronte allo spontaneo invito del vecchio ad andare a mangiare con lui e sua moglie: «Amico mio... Ci saranno giorni, e giorni, e giorni come questo».

La precisa contrapposizione strutturale esistente tra l'epilogo e la vicenda narrata in precedenza lascia trasparire chiaramente la tematica che l'autore intendeva eprimere: il fallimento e la vanificazione delle speranze di coloro che, con la guerra, avevano sognato un'Europa (e un mondo) piú giusta, piú umana, piú vera.

Ma tale tematica non trova felice espressione filmica.

Prima di tutto, perché la figura della protagonista non è facilmente universalizzabile. Susan, accomunata nella sua ansia di rinnovamento e nel suo ideale di pienezza di vita a Tony e a Lazar, non rappresenta né gli Europei né gli Inglesi, ma solo un'esigua e sparuta minoranza, quella di coloro che hanno vissuto la guerra in un modo tutto particolare, tra avventure e rischi, sognando e illudendosi. Inoltre Susan, nella seconda parte della vicenda, è scossa e turbata nel suo equilibrio psichico; ragion per cui il suo comportamento non può diventare «esemplare» ed emblematico. Per quanto riguarda la prima parte, infine, si puo senz'altro affermare che la protagonista si scontra con (e diventerà vittima di) una realtà socio-politicoesistenziale del tutto difforme dai suoi ideali e dalle sue aspettative, ma si può anche osservare che il suo contributo al cambiamento tanto agognato è pressoché nullo e che le sue scelte—talvolta discutibili, talvolta sbagliate e abnormi — non fanno che ricacciarla in una spirale involutiva in cui finirà per perdersi. Non sembrano pertanto del tutto ingiustificate le accuse che il marito le rivolge, reagendo al suo dissennato comportamento distruttivo: «La tua vita è solo egoismo... in nome di un tuo privato ideale hai rovinato quindici anni della mia vita... tutta la tua vita è stata un totale fallimento». Susan vittima, quindi, ma anche di sé stessa e della propria incapacità ad orientare la propria esistenza verso valori e scelte edificanti.

PLENTY è un'opera riuscita solo a metà dal punto di vista tematico e morale, perché, se riesce a far emergere un vuoto di valori che non può che mortificare le coscienze e le aspirazioni verso un mondo migliore, non è però altrettanto precisa nell'individuazione e nella promozione di quei valori che possono garantire alla vita umana dignità, pienezza e «abbondanza». Resta comunque, un'opera dignitosa e interessante dal punto di vista cinematografico per la disinvoltura narrativa e strutturale, per l'interpretazione ad alto livello, per la cura scenografica e per la capacità immaginifica di ricreare ambienti e atmosfere espressivamente convincenti. (Olinto Brugnoli)

 


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