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IL CINEMA E LA DONNA


di NAZARENO TADDEI
Edav N: 348 - 2007

Pubblichiamo di seguito un interessante inedito di P. Taddei. Si tratta della relazione introduttiva al 7° Convegno nazionale CiSCS: IL CINEMA E LA DONNA tenutosi a Bocca di Magra (SP), il 7-8 dicembre 1996.

 

Il titolo di questa mia breve introduzione è «“Il cinema e la donna”: anch’io...».

Quell’«anch’io...» significa che anch’io ho fatto un film sulle donne.

Ma prima di accennarne, vorrei inquadrare il tutto nella tematica di questo Convegno: la donna non divistica; la donna vera, nel cinema; e il cinema vero sulla donna.

Quand’ero studente di liceo, in Seminario, sessant’anni fa, in una predica struggente il P. Spirituale – peraltro un sant’uomo – ci esortò a fuggire la donna come il diavolo, tentatore di natura. Ne rimasi profondamente colpito; anche perché mi veniva in mente che quand’ero ragazzino di 5ª elementare m’ero innamorato d’una mia compagna di scuola. Veniva da un maso della montagna con gli scarponi sporchi dello sterco delle mucche del prato che doveva attraversare, ma a me quegli scarponi sembravano mazzi di fiori. Avevo saputo che s’era lasciata baciare – sulle guance ovviamente – da un mio compagno di scuola, ma io, che pur l’avrei desiderato, non osai mai nemmeno sfiorarla e nemmeno parlarle. Dov’era il diavolo? m’ero chiesto.

Ma quella predica m’aveva colpito: per anni, però, piú cercavo nelle donne di vedere il diavolo per sfuggirlo, piú ne ero tentato; fino a quando mi resi conto che la prima donna con la quale ero stato veramente a contatto era mia madre, morta in conseguenza dell’avermi messo al mondo. L’avevo appena appena conosciuta, eppure ne ho sentito la mancanza per tutta la vita, fino alla tarda età, benché sia stato accolto e allevato amorevolmente da due magnifiche zie, con le mie due, altrettanto magnifiche, sorelle; e benché abbia in seguito trovato altre donne che mi hanno fatto da mamma e da sorelle. Altro che diavolo!

La donna! È vero che Eva, con la sua naturale, ma accentuata, curiosità, è cascata nel tranello del diavolo e vi ha fatto cascare anche quel poveretto di Adamo (e, forse, sotto questo aspetto, aveva ragione il mio vecchio P. Spirituale); ma è anche vero che Eva e le sue discendenti hanno pagato e pagano duramente quel peccato dell’origine. Ci penso quando vedo le pene e i dolori di una maternità; e ci penso anche – all’estremo opposto – quando vedo da vicino o da lontano le dive che soffrono, per invidie profonde, feroci gelosie, compromessi umilianti, vittime di illusioni e delusioni atroci e poi, spesso, per abbandoni definitivi senza un uomo che sappia accarezzarne l’anima oltre che il corpo, senza figli che ne confortino la vecchiaia.

Ma poi penso alla Madonna, Maria, per la quale – come dice l’inno liturgico – il nome di Eva è stato cambiato nell’Ave dell’angelo. Anche Lei ha sofferto come tutte le madri, da quando s’è sentita rispondere dal ragazzino Gesú rimasto nel tempio: «Non sapevate che devo badare alle cose del Padre mio?», fino a quando s’è vista affidare come figlio, sul Calvario, il giovane apostolo Giovanni, non certo un eroe di coraggio, se nella corte del tribunale era fuggito sgusciando via dal mantello, per non farsi riconoscere come discepolo, proprio di quel Gesú che ora moriva in croce e lo affidava alla madre.

Ebbene, detto questo e con questi pensieri, anch’io ho fatto un film sulle donne, 38 anni fa.

Si intitolava CENTO ANNI D’AMORE ed era un lungometraggio sul centenario delle Suore di M. Bambina in India, piú precisamente nel Bengala. La sera, per le strade semibuie di Calcutta, dovevi stare attento a mettere i piedi per non inciampare contro corpi umani distesi in terra non sapevi se dormienti o sfiniti dalla fame o addirittura morti. Mi avevano parlato di una Madre Teresa che li cercava; e un giorno l’andai a visitare in quell’enorme stanzone dove li raccoglieva e che proprio in questi giorni s’è rivisto in televisione.

Ma anche le mie suorine, tutte italiane tranne le nuove leve, si prodigavano eroicamente in analoghi impegni.

I ricordi mi porterebbero lontano; ma accanto allo stupendo assortimento di razze e di incroci nelle allieve della scuola infermiere ai confini con la Cina, non posso non ricordare almeno l’italiana suor Emilia nell’isola sacra del Gange (Krishnanagar, se non ricordo male): con una boccettina d’acqua santa in tasca, andava a cercare i bambini che, con sistemi disumani, venivano fatti espellere dal grembo di madri illegittime che, secondo la tradizione, ivi si recavano per purificarsi; e, spesso rischiando, li battezzava prima che morissero. Con le consorelle ospitava in un povero ambiente e allevava maternamente quei pochi che sopravvivevano. Tra gli altri, c’era una bambina di non ancora tre anni: Sr. Emilia voleva che andassi a trovarla, la prendessi in braccio, le facessi festa, perché – diceva scherzando – s’era innamorata di me.

Un giorno, mentre il capo dei bramini mi aveva concesso di visitare il sancta sanctorum del tempio, nel momento in cui gli dei scendevano a fare il bagno e a mangiare, Sr. Emilia si intrattenne con lui e lo convinse a «farsi dare l’acqua di Gesú». Al mio rientro, tutta giuliva mi disse d’averlo battezzato e anche il capo bramino sembrava tutto contento. Ma tornando a casa, la rimproverai d’aver amministrato in maniera impropria il Sacramento; però con un piccolo artificio, mi feci dare quel boccettino e, tornato a Milano, lo consegnai alla Casa Generalizia delle Suore di M. Bambina in via S. Sofia, perché lo mettessero nel museo dell’Istituto a documento d’una vita missionaria eroica. Non ho piú saputo niente.

Queste le donne del mio film; altro che dive, altro che diavolo! Ma non è tutto qui.

Nel marzo del 1960, il mio film doveva essere (ed è stato) il clou della grande festa del Centenario di quella Congregazione Religiosa. La festa era presieduta dall’allora card. Montini, arcivescovo di Milano e Cardinal Protettore di quelle suore. Nel suo discorso di chiusura, il cardinale commentò molto favorevolmente il mio film, ma si guardò bene dal fare il mio nome, perché proprio in quei giorni avevo avuto l’ordine di andare in esilio per la faccenda de LA DOLCE VITA. E infatti io avevo potuto assistere a quella proiezione solo di nascosto, tra la gente del loggione.

Anche il Papa «buono», Giovanni XXIII – ho saputo a quel tempo – vide in privato il mio film. Mi riferirono che era rimasto molto ben impressionato proprio dalla sensibilità religiosa del regista e dalla verità documentaristica del lavoro. Ma saputo della vicenda che m’aveva colpito (pur ingiustamente, come poi mi dichiarò molto onestamente il card. Ottaviani che l’aveva provocata nel nome del card. Montini) avrebbe detto che non si sentiva di impegnarsi in quella faccenda. 

Ebbene ringrazio il Signore d’essere ancora qui a poter raccontare questa minima vicenda del mio film; ma ho pensato che anche questo poteva essere un contributo storico, per quanto piccolo, pressoché sconosciuto e difficilmente ricuperabile, a «Il cinema e la donna». Grazie!

 


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