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La ricerca della felicità



Regia: Gabriele Muccino
Lettura del film di: Franco Sestini
Edav N: 347 - 2007
Titolo del film: LA RICERCA DELLA FELICITÀ
Titolo originale: THE PURSUIT OF HAPPINESS
Cast: regia: Gabriele Muccino – sogg. e scenegg.: Steve (Steven) Conrad – fotogr.: Phedon Papamichael – scenogr.: J. Michael Riva – mont.: Hughes Winborne – mus.: Andrea Guerra – cost.: Sharen Davis – Effetti: Benoit Girard, Anthony Kramer, Jerome Morin, Digital Dimension – interpr. princ.: Will Smith (Christopher Gardner), Jaden Smith (Jaden Christopher Syre Smith – Christopher), Thandie Newton (Linda), Brian Howe (Jay Twistle), James Karen (Martin Frohm), Dan Castalianeta (Alan Frakesh), David Fine (Rodney), Scott Kiace (Tim Brophy) – durata: 117’ – colore – produz.: Overbrook entertainment, Escape Artists Columbia Pictures Corporation – origine: USA, 2006 – distrib.: Medusa (12.1.2007)
Sceneggiatura: Steve (Steven) Conrad
Nazione: USA
Anno: 2006

È la storia di Chris Gardner, un negro, brillante venditore di apparecchi elettromedicali, al quale la fortuna all’improvviso volta le spalle: le strutture ospedaliere ed i medici non comprano piú il «tester» che lui propone per le indagini ossee; la moglie ossessionata dai debiti e dalle continue corse per accompagnare il bambino all’asilo e poi recarsi al lavoro, decide di piantare tutto e andarsene a New York (il film invece si svolge a San Francisco) dove l’attende un posto di cameriera in un bar aperto dall’amico della sorella: «vado a cercare la felicità» dirà all’allibito Chris e, evidentemente, questa felicità consiste, almeno inizialmente, in un lavoro da cameriera.

Chris resta solo con il piccolo Christofer – cinque anni di età – da accudire totalmente e al tempo stesso cercare i soldi per tirare avanti; mentre si reca a prendere il figlio all’asilo, vede un tizio scendere da una splendida Ferrari rossa, gli chiede che lavoro faccia e, appreso che fa il «broker» in una società finanziaria, si mette in testa di intraprendere lo stesso mestiere. Avvicina uno dei dirigenti dell’azienda e lo impressiona risolvendo in pochi minuti il rompicapo del «dado di Kubrick» (siamo negli anni ’80 e il giochino è di gran moda) ed ottiene cosí l’iscrizione – insieme ad altri 19 fortunati – per uno stage gratuito di sei mesi nell’azienda dei suoi sogni, al termine del quale uno, ed uno solo, verrà assunto; quando si rende conto che «stage gratuito di sei mesi» significa che per sei mesi non percepirà neppure un dollaro, un po’ tentenna, ma la grande fiducia che ha in se stesso lo porta a confermare l’iscrizione; il piano è questo: durante i cinque giorni della settimana segue lo stage e il sabato e la domenica si dedica alla ricerca di medici interessati all’acquisto del suo macchinario. La situazione però tende a precipitare: le vendite sono scarse e quindi non può pagare l’affitto di casa; dopo un arretrato di un paio di mesi viene cacciato e si rintana in una sorta di stanza di motel dove vive insieme al figlioletto; l’intervento del fisco che gli prosciuga i pochi dollari nel conto e l’accumulo di varie multe da pagare che la Polizia costringe ad onorare, lo portano sull’orlo della bancarotta: deve andarsene anche dal motel e lo scalino sottostante è la vita da barbone, fatta di ricerche giornaliere di un posto dove andare a dormire (lui e il bambino).

La meta primaria è una specie di Albergo popolare, al quale però bisogna recarsi presto (diciamo verso le 17.00) perché dopo non ci sono piú posti liberi ed allora l’unico modo per trascorrere la notte è quello di accaparrarsi un bagno pubblico nella metropolitana e barricarsi dentro nonostante le sonore battute alla porta della gente che avrebbe bisogno di utilizzare il gabinetto.

In tutte queste peregrinazioni e, soprattutto in tutte queste corse per arrivare in orario nei vari posti, è sempre seguito da Christopher ed è sempre vestito in modo inappuntabile, come richiede la partecipazione allo stage; il suo problema maggiore è quello che – per effetto dell’incombenza di dover seguire il bambino e quella di cercare un alloggio per la notte, le ore a disposizione per studiare e per concludere le pratiche di acquisizione clienti, sono molte meno di quelle che invece hanno i suoi avversari, ma il nostro Chris non se ne da per inteso e continua indefesso in questa massacrante attività.

Al termine dei sei mesi – come si era ampiamente previsto – il vincitore sarà lui e dopo un bagno di felicità tra la folla della strada, l’abbraccio con il figlio suggella il trionfo.

Prima dell’inizio del film, una scritta sullo schermo annuncia che l’opera è tratta da una «storia vera»; possiamo aggiungere che questa vicenda è stata narrata dal «vero» Chris Gardner in un libro scritto dopo essere diventato multimiliardario; inoltre dai titoli di testa si apprende che il libro da cui è tratto il film è stato sceneggiato da tale Steven Conrad e che il nostro Muccino ha ricevuto il copione e si è limitato a dirigere le riprese, proprio come avviene in America, dove raramente scrittore e realizzatore del film sono la stessa persona.

Il titolo del film – La ricerca della felicità – viene esplicitamente legato alla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, nella quale Jefferson volle che tale ricerca fosse uno dei diritti concessi agli americani, insieme alla libertà e all’eguaglianza e a tanti altri piú o meno concretizzatisi in seguito; notate bene che il diritto è «alla ricerca» e non «alla felicità».

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di strutturare la narrazione: il film si divide in tre parti ed ha un brevissimo epilogo; nella prima parte abbiamo la famiglia Gardner ancora unita, anche se traspare chiaramente la crisi che attanaglia la coppia, crisi di origine chiaramente economica (tra loro parlano solo di soldi, di rate in scadenza, di affitto da pagare, ecc); a Chris non è ancora scoppiata la voglia di fare il broker, in quanto si accontenta del suo piú modesto lavoro di venditore di apparecchi elettromedicali: con questa attività però le spese della famiglia non si pagano e questa situazione di conflitto è all’origine dell’uscita di scena della moglie che se ne va, anche lei alla ricerca di un po’ di felicità (lascia il bambino, ma solo perché Chris insiste tantissimo e le prospetta anche l’impossibilità di prendersene cura in maniera adeguata, stante il suo nuovo mestiere di cameriera).

La seconda parte ci presenta il nostro Chris che – dopo essere rimasto il solo ad occuparsi del bambino – cerca di conciliare la sua attività lavorativa (peraltro in grossa crisi) con le incombenze di famiglia, tipo recarsi a ritirare il figlio all’asilo, occuparsi della spesa, eccetera.

La terza parte prende l’avvio dalla «ricerca» di Chris che inizia dalla folgorazione della Ferrari rossa che lo induce a fare di tutto per entrare a far parte di questa schiera di broker, tutti simboli del personaggio in carriera, tutti vestiti in grigio scuro e tutti immancabilmente con l’aria del ricco. E in questa parte ha inizio la parabola sempre piú discendente del tipo di vita che Chris ed il figlio sono costretti a vivere: dalla modesta casa dell’inizio vanno ad abitare in un Motel (solo una stanza) e poi sono costretti a venire via anche da lí per trasferirsi in una sorta di Ospizio per barboni, dal quale quando non trovano posto, vanno a pernottare in un gabinetto della metropolitana.

L’ultima porzione di film ci mostra la «vittoria» di Chris e la felice conclusione della sua ricerca: risulta vincitore tra tutti e venti gli stagisti e si aggiudica l’ambito premio che poi sarebbe l’assunzione nello staff della società finanziaria: in questa parte viene evidenziata la presenza di capitalisti bianchi, tutti forniti di cuore d’oro, tutti entusiasti della vittoria del negro su tutti gli altri concorrenti bianchi (a proposito: il film non tiene nel minimo conto «i perdenti», categoria che in America non ha diritto neppure al rispetto).

L’opera è soltanto «di vicenda», ed è solo votata a evidenziare e materializzare le possibilità che «il grande paese» mette a disposizione di tutti: la rivincita che non viene mai negata a nessuno, purché votato all’unico obiettivo per cui valga la pena di lottare, il successo e, quindi, la felicità.

Infatti, una delle cose che il film sottolinea è che la felicità fa rima con soldi, con successo, con belle macchine e belle case; ed infatti nell’ultimissima parte del film, alcune didascalie ci dicono che il signor Chris Gardner – quello vero, quello che ha scritto il libro – dopo essere entrato nella società finanziaria di cui si parla nel film ed aver raggiunto, in breve tempo, posizione di prestigio, lascia l’azienda e ne mette in piedi una per conto proprio, nella quale guadagna miliardi su miliardi; successivamente – e siamo ai nostri giorni – vende la sua società ed incassa altri miliardi; scrive il libro sulla sua vita che diventa un best-sellers e dal quale ricava altri miliardi. Insomma, sembra un novello Creso, che riesce ad ottenere «tutto» con il solo aiuto di una fortissima volontà!

Un’ultima cosa circa la struttura del film: le aspirazioni di Chris, ma anche degli altri personaggi del film, sono tutte mirate al denaro; va bene che siamo negli anni ’80, in piena era Reagan, dove uno solo è l’imperativo – arrivare al successo a qualunque costo e tutti gli altri non contano – ma in un’opera cinematografica ci saremmo aspettati che facesse capolino anche qualche altro valore, qualche sentimento, qualche aspirazione di carattere sociale; ed invece, se togliamo l’amore paterno che Chris mostra continuamente nei confronti del figlio, non ci resta nient’altro.

Ed a proposito di questo rapporto padre/figlio, la prima affermazione di Chris ci introduce anche nella sua psicologia affettiva «ho conosciuto mio padre quando avevo già 28 anni, non lascerò mai la mia creatura»; con questa affermazione l’aspirante broker ci conduce anche alla seconda «predica», molto americana, «non permettere a nessuno, neppure a me, di dirti che quello che desideri fare è irraggiungibile; se hai un sogno devi difenderlo, se vuoi qualcosa devi prendertela»; e per concludere circa questo rapporto, ripeto, unico «sentimento» che appare nel film, c’è da notare che quando i due corrono per prendere un autobus e al piccolo Christopher cade di mano l’amato pupazzetto – unico giocattolo che si vede nel film – il padre lo strattona e gli impedisce di fermarsi a raccoglierlo: come dire che l’obiettivo finale va avanti a tutto.

Due parole sugli interpreti: Will Smith, nei panni di Chris è molto bravo, molto attento a realizzare un personaggio «diverso» dagli altri che ruotano nella vicenda e riesce in questa sua aspirazione, nella quale peraltro conduce anche il figlio «vero» – nel ruolo del figlio – che, sia per la mimica (due occhi nerissimi ed una gran massa di capelli crespi) ma anche per la recitazione, rivaleggia con il padre.

Ed ora concludiamo parlando un po’ del nostro Muccino: sembra che sia stato lo stesso Will Smith – produttore esecutivo del film – a sceglierlo per la direzione del film e lui ha confezionato un prodotto che mostra appieno la sua professionalità; certo non possiamo definirlo «il film di» Muccino, in quanto lui si è trovato il copione già scritto da un americano, il quale lo ha tratto da un libro di un americano; di piú Muccino non poteva fare, a meno di rinunciare alla direzione dell’opera, certo non poteva mettersi a modificare la scrittura cinematografica e quindi ha tirato a mostrare agli americani tutto il suo talento di realizzatore e, sotto questo aspetto, c’è riuscito appieno, tant’è vero che sarei pronto a scommettere che la cinematografia hollywoodiana affiderà al nostro regista altri film da dirigere. (Franco Sestini )

 


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