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Una scomoda verità



Regia: Davis Guggenheim
Lettura del film di: Eugenio Bicocchi
Edav N: 347 - 2007
Titolo del film: UNA SCOMODA VERITÀ
Titolo originale: AN INCONVENIENT TRUTH
Cast: regia: Davis Guggenheim - mont.: Jay Lash Cassidy, Dan Swietlik, Javier Alvarez - mus.: Michael Brook, Melissa Etheridge - effetti: Troy Rackley - interpr.: Al Gore (se stesso) – durata: 118’ – colore – produz.: Laurie David, Lawrence Bender e Scott Z. Burns per Partecipant Productions - origine: USA, 2006 – sito italiano: www.uip.it/unascomodaverita – sito americano ufficiale, indicato nei titoli di coda: www.climatecrisis.net – distrib.: UIP (Cannes 2006 - 19.01.2007)
Nazione: USA
Anno: 2006
Presentato: 59. Festival di Cannes, 2006 - Fuori Concorso

Giova aver presente il seguente passo teorico di Nazareno Taddei (La lettura del film, dispensa, ed. Ciscs, 1982 o altre edizioni, p. 62): «Cap. 9 NATURA ESPRESSIVA DEL SEGNO CINEMATOGRAFICO.

La “cosa rappresentata” e la “rappresentazione della cosa.

(...) Guardando l’immagine sotto l’aspetto di RAPPRESENTAZIONE, dobbiamo distinguere:

A) la COSA che è rappresentata. Presenta la possibilità di essere considerata

= in sé stessa (“cosa in sé”): esisteva, era quella cosa e non un’altra, era il sig. Mario e non il sig. Pietro;

= in funzione dell’essere rappresentata (“cosa rappresentata, in quanto “ ‘cosa’ ”): essa, quanto meno, in quel momento aveva per noi un qualche interesse; per questo l’abbiamo ripresa e l’abbiamo ripresa in un certo modo (avevano detto a quella persona: “Mettiti in questo punto; girati in quel modo; tieni la testa alta”, ecc.) o in un certo momento (p.e. ci interessava la precisa espressione del bambino, che egli aveva in quel momento).

Se poi consideriamo questa “cosa” nell’immagine che la rappresenta (ed è la “cosa rappresentata”, che non ha piú niente a che fare con la “cosa in sé”, perché l’immagine resta anche se la persona ripresa non fosse piú), vediamo che questa “cosa rappresentata” presenta due diversi aspetti:

1° - “cosa rappresentata in quanto cosa”: è l’aspetto informativo dell’immagine (cioè rappresenta Mario anziché Pietro);

2° - “cosa rappresentata in quanto rappresentata”: è l’aspetto espressivo dell’immagine (Mario - e non Pietro - ripreso in un certo atteggiamento, per dire p.e. che è bello).

Sono i “modi informativi” dell’immagine; quindi hanno per oggetto diretto la cosa che è rappresentata.

Nell’uno e nell’altro aspetto, essa può essere “cosa-oggetto” o “cosa-strumento”. È “COSA-OGGETTO”, quando l’autore ci dà in immagini quella cosa per farcela conoscere, per l’interesse che egli ha proprio di questa cosa (p.e. le foto informative e documentarie). Il “come” è stata ripresa è appunto in funzione di farcela conoscere come cosa.

È COSA-STRUMENTO, quando la “cosa rappresentata” è rappresentata in funzione di espressione di un’idea il cui centro d’interesse non è costituito da quella cosa (p.e. i colori di un fiore per creare una composizione pittorica del quadro).

Si sarà notato che, fin qui, pur considerando l’immagine, il nostro interesse era per ciò che vi era rappresentato.

B) L’IMMAGINE che rappresenta quella cosa, considerata proprio come ciò che rappresenta, offre due aspetti:

a) l’aspetto per il quale l’immagine riproduce visivamente (e/o sonoramente) i contorni visivi (e/o sonori) della cosa, sia pur subordinatamente ai propri modi particolari.

Ne risultano i “modi narrativi” o “modi di struttura narrativa”, che si possono considerare anche quali modi “informativi”, ma non nel senso del “cosa informativo” suddetto. Sopra, infatti, si trattava di considerare la cosa circa cui l’immagine ci informava; qui, invece, si tratta di considerare il modo in cui ci è data quell’informazione. In altre parole, qui consideriamo l’informazione in funzione espressiva (p.e. il fatto che il protagonista abbia sempre il vestito bianco; che tutto il film si svolga in un interno, con le pareti rosse; o simili);

b) l’aspetto per il quale quei modi caratteristici (cioè le “de/formazioni tecniche”) apportano un proprio autonomo significato all’immagine: sono i “modi semiologici” (p.e. l’uso costante di un colore o del PP, lo stile del montaggio, ecc.).

I “modi narrativi”, pur in funzione di espressione, sono ancora legati alla cosa rappresenta; i “modi semiologici”, invece, sono legati alla natura linguistica dell’immagine. É chiaro che i “modi narrativi” hanno un loro specifico valore semantico (non è la stessa cosa, anche in funzione di significato dell’immagine, che vi sia rappresentato un cavallo anziché una casa); tuttavia, essi sono subordinati ai “modi semiologici”; e sono questi ultimi a dare il vero tocco si significazione all’immagine.

Sembrano distinzioni sottili e teoriche, ma ai fini della lettura sono importanti. Si tratta infatti di entrare in un ordine di idee diverso da quello cui siamo abituati. Siamo infatti abituati [il fenomeno permane a piú di 20 anni di distanza, ndr.] a guardare l’immagine solo come rappresentazione: per questo ci fermiamo a ciò che vediamo piú che ai “modi” in cui l’oggetto è ripreso. Da questo dipende che non riusciamo nemmeno a sospettare che dietro l’immagine ci sia un’idea che può essere assai lontana dal significato delle cose che vediamo e ascoltiamo; e proprio su tale equivoco o limite è fondata la possibilità di massificazione e di strumentalizzazione dei mass media.».

 

Il documentario UNA SCOMODA VERITÀ – giacché di un documentario si tratta, anche se la tipologia di questa categoria di filmati si dispiega in varie espressioni – si presenta come una sorta di «conferenza tipo», una summa in altre parole, delle molte conferenze che Al Gore, da una quindicina d’anni, tiene viaggiando per gli Stati Uniti e in altri continenti del globo(1).

Qualcuno potrebbe dire (e infatti in diversi commenti lo si nota implicitamente) che è un film «di» Al Gore(2). È certo che sia cosí, nel senso che «senza» Al Gore e «senza» il suo consenso (e anche la sua volontà e, chissà – absit iniuria verbis – ...il suo contributo finanziario) noi non avremmo questo audiovisivo. Ma, per usare un linguaggio tendente alla chiarezza, è preferibile dire che siamo di fronte ad un’opera cinematografica «su» Al Gore. O, meglio: che il regista (sí proprio lui, per quanto nome «in penombra» rispetto all’«evidenza» del personaggio) argomenta, filmicamente, la tesi, sostenuta da Al Gore, sul riscaldamento globale del pianeta.

In ogni modo, anche se il regista «ufficiale» fosse un «esecutore» o un «tecnico», qui, su queste pagine di Edav, si vuole tenere fermo il principio dell’importanza del «ruolo della regía» pure per il genere documentario, prescindendo dal reale peso e apporto di una singola persona o di un’altra.

Dunque, anche UNA SCOMODA VERITÀ ha una sua «costruzione» che è d’ordine informativo, argomentativo e persuasivo.

La regia struttura la propria narrazione con materiali diversi: immagini di Al Gore impegnato in sala conferenze (una sala tecnologicamente attrezzatissima) o in viaggio o in ufficio (in realtà immagini con una certa dose di «finzione situazionale», anche se con intenti espressivi documentaristici)(3); immagini di repertorio su eventi naturali di «ordinario», ma preoccupante, accadimento (i ghiacci polari di frontiera sul mare che sprofondano nelle acque) o di «straordinaria» manifestazione (le catastrofi); immagini, ancora di repertorio, su manufatti (impianti industriali) o avvenimenti storici; immagini, sempre riprese «dal vero», girate ad hoc, come quelle idilliche del quieto pacato e sereno corso d’acqua fra le fronde che apre, pausa, e chiude il film; e immagini, anche, di «esclusiva origine tecnologica» come l’animazione (sia «tradizionale», cioè il cartone animato, sia computerizzata che va sotto la denominazione «3D», ossia tridimensionale) o come la visualizzazione, anch’essa computerizzata, in schemi e in grafici, di dati statistici, di tendenze e di previsioni.

Quanto alla colonna sonora, tra gli altri elementi, vanno notati i seppur contenuti applausi, i brusii e le risatine d’approvazione relative agli ascoltatori di Al Gore.

Si è prima anticipata la presenza dei tre aspetti del documentario d’ordine informativo, argomentativo e persuasivo.

In questo contesto il termine informativo è inteso in senso referenziale; quello argomentativo in un senso molto simile a quello di dimostrativo e di convincente per forza interna del ragionamento; infine il termine persuasivo è inteso in un senso vicino a spettacolare.

Prima di trattarli singolarmente si rende utile una precisazione. Mentre, qui, in queste pagine i tre aspetti non possono venire scritti (data la natura del linguaggio strettamente verbale) se non in sequenza (uno dopo l’altro cioè, con il rischio di dare l’impressione che siano in successione o che si declinino secondo l’importanza), nella realtà del documentario essi coesistono ed agiscono simultaneamente in un rapporto sinergico di influenza e rafforzamento reciproco. Per dare un’idea: l’aspetto informativo, che potrebbe avere da parte dello spettatore un’attenzione limitata se non addirittura insufficiente non essendo esso appetibilissimo, riceve un grosso aiuto dall’aspetto persuasivo rappresentato per esempio dalla alonatura di simpatica autorevolezza del testimonial, per il parlare franco di Al Gore, supportato, nella versione italiana, da un doppiaggio di qualità straordinaria e per le componenti biografiche emozionali da lui evocate (il grave incidente accorso al figlio, il dolore per la morte della sorella, ecc.). Per altro verso queste aperture sulla vita privata non cadono nella verbosità esibizionistica, perché mirano a dare conto di scelte e ragioni dell’impegno personale a «formare una coscienza ambientalista». In altre parole, sono motivate dall’intenzione di anticipare una possibile scettica domanda proveniente dallo spettatore, la quale potrebbe essere cosí formulata: «Ma ad Al Gore, chi glielo lo fa fare? Chi o che cosa lo spinge a battersi su questo punto con tanta energia e impegno, visto che si tratta di un terreno che procura a chi lo percorre piú grane e rogne che soddisfazioni e vittorie?» E cosí si potrebbe formulare la risposta implicitamente contenuta nel documentario: Fatti – anche molto dolorosi – che coinvolgono tanto profondamente la sfera affettiva, sono stati elementi determinanti per certe scelte di vita.

L’aspetto argomentativo, d’ordine scientifico, a sua volta, mentre ha bisogno della base d’appoggio dell’aspetto informativo, coinvolge lo stesso nello sviluppo del discorso, in una sorta di narrazione che allontana il rischio di aride elencazioni schematiche. 

L’aspetto informativo. Il documentario (il regista) attraverso dati statistici e citazioni audiovisive traccia l’andamento storico della azione esercitata dall’uomo sulla terra. L’importanza e il valore di questo aspetto del documentario dipendono anche dalle conoscenze previe dei singoli spettatori. Direi che, almeno per quanto riguarda uno spettatore italiano adulto e di media cultura (poniamo di istruzione secondaria di secondo grado), diverse informazioni fornite dal documentario sono, anche solo approssimativamente e senza una visione organica, in parte già note, perché, con cadenza settimanale, ne parlano sia la stampa (nelle pagine culturali o negli inserti della «scienza») sia la televisione (inchieste e rubriche periodiche)(4). Ovviamente le conoscenze previe dipendono da che cosa ogni singolo spettatore legge sui giornali e segue per televisione. Il documentario stesso tiene conto del problema in un passaggio a poco meno di dieci minuti dall’inizio della proiezione. Conviene riportare tutto il passo, anche perché non è facile sforbiciarlo senza alterarne il senso. Su immagini di Al Gore, di schemi, di animazioni e di materiale di repertorio, Al Gore stesso dice: «“Mark Twain dice che il pericolo non viene da quello che non conosciamo, ma da quello che crediamo sia vero e, invece, non lo è.”. Questo è un punto importante, perché molte delle cose che comunemente si pensano sul riscaldamento globale, in realtà, non sono vere. Assunti come questo: «la terra è cosí grande che non possiamo avere alcun impatto a lungo termine sull’ambiente terrestre». Forse era vero un tempo, ma non oggi; e una delle ragioni per cui ciò non è piú vero è che la parte piú vulnerabile dell’ecosistema della terra è l’atmosfera; piú vulnerabile perché molto rarefatta. Un amico che non c’è piú (...) diceva che se avessimo un grosso globo con un rivestimento di vernice, lo spessore di quella vernice rispetto a quel globo sarebbe uguale all’atmosfera terrestre comparata alla terra stessa [l’atmosfera si innalza per solo un centinaio di chilometri dal suolo terrestre, mentre, per esempio, l’asse della terra lungo piú di una decina di migliaia di chilometri, ndr.]; ed è [l’atmosfera, ndr.] cosí sottile che l’uomo è in grado di modificarne la composizione.

Questo getta le basi della scienza del riscaldamento globale.

Ma non vi parlerò a lungo di questo perché conoscete l’argomento[grassetto nostro]. Le radiazioni solari penetrano nell’atmosfera terrestre sotto forma di onde di luce e questo riscalda la terra; poi alcune delle radiazioni che sono state assorbite e che hanno riscaldato la terra vengono irradiate di nuovo nello spazio sotto forma di raggi infrarossi. Alcuni raggi infrarossi vengono intrappolati da questo strato di atmosfera e trattenuti all’interno. Questa è un’ottima cosa perché permette di mantenere la temperatura sulla terra costante e entro determinati limiti, in modo che sia vivibile. Ma il problema è che questo sottile strato di atmosfera viene ispessito dall’inquinamento, che arrivando lassú causa il riscaldamento globale con l’ispessimento di questo strato di atmosfera. Gran parte dei raggi infrarossi in uscita resta intrappolata. E cosí l’atmosfera riscalda tutto il mondo. Questo è il riscaldamento globale secondo la tradizione, ma secondo me c’è una spiegazione piú corretta.».

Con una molteplicità di apporti (perfino un cartone animato) la regía supporta Al Gore nella esplicitazione della teoria sul riscaldamento globale. Risulta cosí chiaro il senso della espressione «riscaldamento globale». «Globale» non solo perché riguarda ogni angolo della terra, ma perché coinvolge anche l’atmosfera. L’involucro del nostro pianeta. Il fenomeno è grave perché l’atmosfera «riscaldata» è simile a un forno. Dentro ci siamo noi.

C’è anche un’informazione, verso il finale, gratificante, perché si riferisce alla risoluzione di un recente problema ambientale. Riguarda il «buco dell’ozono» che può essere oggi (2006) considerato praticamente irrilevante se non addirittura risolto. Per me personalmente è una notizia nuova e inedita. Gradevolissima, anche se questa informazione è dal documentario poco circostanziata. È vero che è fornita per una certa funzione argomentativa, però, essendo una buona notizia e, ripeto, per me nuova, avrebbe fatto piacere la fornitura di maggiori dettagli.

L’argomentazione. La trattazione del tema del surriscaldamento globale muove, ovviamente, dalle informazioni relative alla «quantità» di inquinamento prodotto dall’uomo. I passaggi esplicativi sono: l’uomo ha bisogno di energia. Egli trae questa energia dai derivati fossili, per due motivi. Un motivo economico ed un motivo strutturale della sua concezione di vita: non ponendo egli limiti ai suoi bisogni di energia deve utilizzare la fonte energetica piú abbondante e facile che è quella fossile. In altre parole: l’uomo usa l’energia fossile perché è la meno costosa e la piú abbondante. Ma questa scelta tecnica è inquinante e l’inquinamento è causa del riscaldamento globale.

Uno straordinario punto di forza dell’argomentazione sta nel dire e sottintendere piú volte che l’inquinamento è causa di grande «sofferenza» del pianeta, ma non è l’unica. Si nota in un’affermazione simile il concetto di complessità e quindi la rimozione di affrettate e grossolane conclusioni.

Cosí anche la prospettiva di una «guarigione» tecnicamente possibile della terra (o almeno di un contenimento del riscaldamento globale), espressa nel finale, suona piú autorevole rispetto ad un auspicio formale di miglioramento detto con superficialità e dopo una serie di affermazioni semplicistiche.

L’argomentazione vuole rivolgersi a tutti, perché l’apporto di ognuno – il suo cambiamento di stile di vita – è una condizione, sine qua non, per contribuire al progetto di risanamento del globo.

In questa ottica vanno considerati i ripetuti inviti espressi a voce nel corso del documentario e, in forma grafica, sui titoli di coda. Il primo invito riguarda la disponibilità di ognuno a cambiare abitudini inquinanti.

Una iniziativa sinergica è stata adottata con la distribuzione all’ingresso della sala cinematografica (situata, nel caso capitato a me, a Milano) di un volantino cartaceo con dieci indicazioni per far «qualcosa» di molto semplice, ma già possibile, da subito, per fermare il riscaldamento globale(5). 

L’aspetto persuasivo. Il piú significativo è quello della forza interna del ragionamento. Il documentario pare avere questa particolarità. Ma ne concorrono anche altri aspetti. Per esempio, Al Gore (molto abbronzato) ha una fisicità d’uomo adulto e pacato (contribuisce il già ricordato ottimo doppiaggio italiano), ma, nello stesso tempo, giovanile, il che, al giorno d’oggi, è recepito molto bene da un determinato pubblico. Anche le rivelazioni personali sulla vita affettiva di Al Gore servono ad accattivare gli animi. C’è un passaggio indubbiamente potente quando egli ricorda l’attività produttiva di tabacco da parte della sua famiglia. Era piacevole, confida, anche per lui, giovane, partecipare al raccolto. Ma sua sorella, in quell’ambiente, incominciò presto a fumare. Ancora giovane morí di tumore. La famiglia Gore smise la coltivazione del tabacco e quella tragedia lasciò in Al l’amarezza d’aver venduto un prodotto che si era rivelato nocivo per la salute degli uomini.

Si è fatto cenno, in precedenza, alla comparsa degli applausi. Anche questo elemento è utilizzato dal regista per alonare positivamente il personaggio Al Gore e, in maniera mediata, la tesi attraverso di lui espressa dal filmato. Questi ultimi sono «mezzucci», ma per fortuna il regista è stato contenuto.

Nella nota 2, sono riportati gli auspici della stampa americana per la visione di questo documentario anche nelle scuole. In Italia, al momento, non risultano iniziative in tal senso. Questo documentario può andare incontro a due pericoli: il primo è l’indifferenza, il secondo una curvatura in senso politico, il che rappresenta un certo fraintendimento. Al Gore, pur parlando esplicitamente del suo rivale Bush, vittorioso su di lui nel 2000, afferma che il problema della sopravvivenza della vita sulla terra è piú morale che politico. Certo, egli non nega che la politica debba fare il proprio dovere, ma pensa che la strada régia sia quella della partecipazione di tutti. Per questo tiene tanti incontri e vuole parlare al piú alto numero di persone, di singoli, reali, individui.

Si tratta, dunque, di un documentario dalle buone intenzioni e per nulla realizzato male: oltre all’aspetto persuasivo gestito con una certa dose d’onestà, ha l’aspetto informativo e quello argomentativo abbastanza ben motivati (anche alcuni aforismi sono efficaci, come quello che sostiene che è difficile convincere qualcuno della sua incapacità a comprendere un dato fenomeno, se è proprio tale incomprensione ad essere la fonte di sostentamento e di guadagno, vale a dire fondamento dei propri interessi. A tale proposito fa riflettere la recentissima notizia data dalla Rai (TG2), la sera dell’8 febbraio 2007: le case europee costruttrici di automobili – Fiat compresa – hanno protestato di fronte al disegno di legge della Comunità Europea che imporrebbe, per i motori a scoppio, la riduzione di una certa percentuale di sostanze inquinanti rilasciate. Hanno protestato dichiarando che per ottenere quei risultati il costo delle vetture dovrebbe aumentare di circa 3.500 euro. Tutta la preoccupazione evidentemente nasce dal timore della incapacità a comprendere un dato fenomeno, come il rialzo dei prezzi, da parte degli acquirenti. Cosí il cerchio si chiude, tutti addossando responsabilità agli altri, tutti autoassolvendosi. Solo una profonda coscienza ambientalista potrebbe trasformare lo stile di vita di molti individui. Ma in questo senso, probabilmente, UNA SCOMODA VERITÀ, in prevalenza basato sull’allarme e la paura, è troppo debole. Si rivelò a suo tempo non risolutivo perfino quello straordinario film (di finzione, ma non è il genere cinematografico a fare la differenza) realizzato da Kurosawa, dal titolo DERSÚ UZALÀ, basato sulla forza della poesia e dei richiami che la natura continuamente manda all’uomo (v. lettura in Edav n. 49, maggio 1977, ripubblicata nei nn. 281 e 282 del 2000 e in Olinto Brugnoli, Un cinema per crescere, ed. Cinit, 2005).

Un’annotazione, per ora, senza risposta: sul n. 16 del supplemento «Magazine», del Corriere della sera del 20.04.2006, si legge un servizio a firma di Sara Gandolfi dal titolo «Aiuto, mi si squaglia il mondo», in cui il tema del riscaldamento globale segue una struttura argomentativa molto simile al documentario. Non può essere una coincidenza. Forse c’è una fonte comune, forse un progetto organico. Sarà un bene? Speriamo. (Eugenio Bicocchi)

 

(1) A partire dal passo citato di Taddei, si può arrivare ad una distinzione a proposito di UNA SCOMODA VERITÀ e dell’ultimo documentario trattato su questo periodico, LA MARCIA DEI PINGUINI (Edav, n. 340, maggio e n. 341 giugno). Ma prima occorre prendere la rincorsa. Dal sopra riportato passo: «La COSA che è rappresentata. Presenta la possibilità di essere considerata in sé stessa (“cosa in sé”): esisteva, era quella cosa e non un’altra, era il sig. Mario e non il sig. Pietro.». Cosí, per LA MARCIA DEI PINGUINI, possiamo far dire al regista «erano i pinguini e non le lucertole». E ancora dal passo: «la COSA che è rappresentata. Presenta la possibilità di essere considerata (...) in funzione dell’essere rappresentata (“cosa rappresentata, in quanto “ ‘cosa’ ”): essa (...) aveva per noi un qualche interesse; per questo l’abbiamo ripresa e l’abbiamo ripresa in un certo modo (avevano detto a quella persona: “Mettiti in questo punto; girati in quel modo; tieni la testa alta”, ecc.).». Cosí, per il documentario UNA SCOMODA VERITÀ, possiamo immaginare che il regista abbia detto «Al Gore, mettiti in questo punto; girati in quel modo; tieni la testa alta, ecc.». Ed ora, saltando, per concisione, le parole del passo relative alla «cosa rappresentata» – che invitiamo il lettore, se in difficoltà, a recuperarle ritornando all’inizio – ecco la preannunciata distinzione, tenendo ancora altre parole del citato passo come traccia metodologica: «(...) essa [la cosa rappresentata, ndr.] può essere “cosa-oggetto” o “cosa-strumento”. È “COSA-OGGETTO”, quando l’autore ci dà in immagini quella cosa per farcela conoscere, per l’interesse che egli ha proprio di questa cosa (p.e. le foto informative e documentarie). Il “come” è stata ripresa è appunto in funzione di farcela conoscere come cosa.»: ed è proprio il caso del documentario su LA MARCIA DEI PINGUINI.

«È COSA-STRUMENTO, quando la “cosa rappresentata” è rappresentata in funzione di espressione di un’idea il cui centro d’interesse non è costituito da quella cosa (p.e. i colori di un fiore per creare una composizione pittorica del quadro)»: ed è proprio il caso di UNA SCOMODA VERITÀ.

Abbiamo cosí due documentari che non sono sovrapponibili. Là, dove ci troviamo di fronte alla «cosa-oggetto», come si è visto (Edav, cit.), la rappresentazione tematizza, grazie ai «modi semiologici» (cfr. il passo citato), un’aspetto di quella «cosa», e cioè la bellezza, la simpatia, la generosità, il coraggio, lo spirito di sacrificio e la vitalità (la dedizione alla vita) di questi animali antartici. Là, dove ci troviamo di fronte alla «cosa-strumento», come si vedrà nel proseguo dell’analisi, la rappresentazione tematizza non Al Gore, ma si serve di Al Gore in funzione di espressione di un’idea il cui centro di interesse non è costituito da Al Gore, ma dalla problematica ambientale. Che poi sia Al Gore il testimonial di una tesi che è la sua non muta la tipologia del filmato.

Da tutta questa argomentazione ne deriva anche un’altra distinzione. Ci sono documentari che rappresentano una «cosa» che non è influenzata dalla ripresa ed una «cosa» che, invece, lo è. Il primo caso è quello dei pinguini ai quali il regista non poteva dare disposizioni. Erano animali allo stato libero e liberamente si sono mossi come se la cinepresa non ci fosse. Il regista Jcquet ha dichiarato (v. Edav, n. 340) che bisognava rispettare la natura, che certi giorni i pinguini erano disinvolti nonostante la presenza umana, certi altri giorni no. In quelle circostanze non aveva senso filmare. Al contrario il documentario con Al Gore rivela riprese tutte studiate per composizione figurativa e per l’azione corrispondente. In questo senso è un documentario «diretto» come se fosse un film di finzione.

Tra questi due poli si collocano altri filmati in certi casi piú vicini alla tipologia del documentario dei pinguini, in altri casi alla tipologia del documentario girato con una tecnica quasi da fiction su Al Gore.

Orientativamente una quindicina di anni fa, Furio Colombo, ospite di una trasmissione rai di Sartori disse che in Medio Oriente i ragazzini palestinesi aspettavano, per scendere in strada e lanciare pietre contro i soldati israeliani (era la prima intifada), una certa ora, utile ai cameraman televisivi, per la realizzazione di immagini da presentare, grazie al diverso fuso orario, nei telegiornali occidentali della sera come servizi dell’ultima ora. Si tratta di una tipologia singolare di immagini: da un lato si può dire che la presenza delle telecamere faceva scattare, a una certa ora, gli scontri (e quindi che si trattava di una «realtà», gli scontri, condizionati come casus, nel loro accendersi dalle riprese televisive) e si può anche dire che poi i cameraman non «dirigevano» le modalità degli scontri e quindi che si tratta di fatti autonomamente svolti. Quindi immagini di scontri definibili «rappresentati in quanto rappresentati» per l’aspetto di «appuntamento» e inizio degli eventi e «rappresentati in quanto cosa» per l’aspetto di modalità degli scontri.

(2) Nel sito http://filmup.leonardo.it/speciale/aninconvenienttruth/int01.htm, Andrea Carugati presentando una lunga intervista ad Al Gore, scrive: «(...) l’effetto serra minaccia la stessa sopravvivenza del genere umano. E la conferma, se necessaria, arriva, oltre che dalla vita di tutti i giorni, dai recenti e drammatici rapporti di Onu e Ue. Il messaggio è chiaro: o si cambia o si muore. (...). A meno che non abbia ragione Gore che nel suo [il grassetto è nostro] UNA SCOMODA VERITÀ, documentario visionabile oggi anche nelle sale italiane, ipotizza, se si agirà in fretta e con una coesione sconosciuta nel mondo globale, un salvataggio in zona Cesarini. “Il film piú terrificante che vi capiterà di vedere nella vostra vita”. “Un film da mostrare nelle scuole, nelle fabbriche, negli uffici. Lo dovrebbero vedere tutti”, alcune delle reazioni dei grandi giornali americani. Un documentario che spiega cosa è l’effetto serra, cosa ha già causato, quali saranno le sue conseguenze e cosa ciascuno di noi può fare per arginare il fenomeno. Non una lezione, una chiacchierata tra amici che passa rapida con l’ausilio di alcune diapositive che da sole basterebbero a convincere anche il piú scettico tra gli scettici. Inquietante e già in odore di Oscar.».

(3) In altre parole: in tali immagini di reale e documentato c’è Al Gore, mentre ciò che egli sta facendo (per es. parla al telefono) è ricostruito e girato con la tecnica della fiction (la camera è posizionata nel punto di ripresa migliore, la luce è adeguata, ecc.). Sono immagini in cui è rappresentato Al Gore (vero, proprio lui), mentre (fingendo) mima un’azione che in precedenza – perché non crederci? – ha realmente fatto. Questo documentario rappresenta cosí un caso composito in cui nella grossa componente documentaristica (Al Gore è Al Gore) è inserita una componente in cui ciò che egli fa è presumibilmente ciò che ha fatto, vale a dire una componente di fiction. Casi come questo spingono alcuni a concludere, un po’ frettolosamente che la distinzione fra film documentario e film di finzione è, praticamente, inesistente; oppure spinge altri ad assimilare i singoli casi, volta per volta, in un’unica delle due categorie (per il peso prevalente di una delle due componenti). Ma perché essere cosí drastici negazionisti (i primi) o cosí rinunciatari (i secondi), quando, seppur con cautela e prudenza, si possono individuare e descrivere tipologie adeguate? Si guardi ancora una volta il passo del Taddei, riportato all’inizio, e si veda se non sia possibile un inquadramento.

(4) Sarebbe interessante indagare sulla qualità e validità scientifica di questi servizi. A volo d’uccello sembrerebbe che ci sia del buono. Per gli USA, invece, a proposito della qualità di servizi mass mediali, nel documentario Al Gore presenta un confronto interessante, ma non privo di risvolti preoccupanti. Su circa un migliaio di documenti di esperti di clima – egli afferma – la percentuale di disaccordo tra gli scienziati è pari allo zero per cento. Al contrario, se l’informazione è veicolata dai giornali i casi di disaccordo sono circa il 50%. Questo significa, a suo parere, che ci sono dei rimescolatori delle carte che tentano di confondere l’opinione pubblica.

 


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