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L'essere e l'apparire e il metodo Taddei


di LUIGI ZAFFAGNINI
Edav N: 357 - 2008
L’articolo ampliato e completo di foto, schemi si trova in Edav n. 357 febbraio 2008
 
I termini del problema.

Nessuno può negare che ci siano un disagio giovanile e un disagio sociale e che Taddei, per quanto inascoltato, abbia da sempre affermato che esso ha come fonte principale i massmedia a causa dell’uso che se ne fa e del loro linguaggio. Ugualmente Taddei ha sempre concepito il suo metodo di lettura dei media anche come un antidoto per fronteggiare questo disagio.

Piú complesso è convincersi che questo disagio ha assunto proporzioni drammatiche proprio per la natura del linguaggio dei media e che la proposta di Taddei diventa pertanto uno strumento educativo a tutto campo, capace di contribuire a formare la persona.

Il rapporto essere – apparire sotto il profilo antropologico.

Interrogarsi su questo rapporto è un passo obbligato che l’uomo compie nel corso della vita. Collocare questo aspetto nell’ambito antropologico non significa certo «fare della letteratura pirandelliana», bensí studiare le componenti originarie della cultura dell’uomo e come esse si manifestano nella struttura della sua personalità, relativamente alla età, all’ambiente e al gruppo etnico e sociale di appartenenza. In una parola, vedere lo spessore antropologico del disagio, significa studiare l’uomo in rapporto alla società cogliendone la dimensione costante della natura interiore e quella, invece, mutevole della sua cultura, a partire dalle origini fino all’epoca post-moderna. Sotto questo profilo, dunque, l’uomo presenta due componenti: quella naturale innata, legata agli istinti, al soddisfacimento dei bisogni primari e a una disposizione verso il bene o il male (il cosiddetto libero arbitrio) e quella culturale, invece, legata alla elaborazione della conoscenza e all’ambito delle relazioni.

Origine del comportamento e della violenza sociale.

Da un lato il comportamento sociale umano si configura come progressivo passaggio dalla dimensione istintuale alla dimensione relazionale, che modera la violenza o la indirizza selettivamente. Quanto piú ci si allontana dal livello comportamentale puramente istintuale e individuale, tanto piú si affina e si complica il livello comportamentale sociale e si va verso l’accettazione o il rifiuto di una violenza originata, non da istinti di sopravvivenza o di difesa, bensí da presupposti concettuali o ideologici elaborati dalla comunità.

Dall’altro lato l’aspetto comportamentale si sviluppa sul piano dei sentimenti e della costruzione dell’etica, che riflettono una base innata. Si consolidano in questo modo i valori e la coscienza individuale e collettiva. Nascono le istituzioni sempre piú complesse a partire da quella della famiglia, come manifestazione di una presa di coscienza verso l’altro.

Quando, con il passare del tempo, il sistema delle relazioni, che incide sui comportamenti, mostra crepe di credibilità e di autorevolezza, cioè nei valori che non sono piú condivisi, e appare solo formale e, caso mai, autoritario, si originano sia il disagio, come non sintonia con il sistema, sia la reazione di tipo aggressivo o violento. 

Il rapporto essere – apparire sotto il profilo culturale.

Oltre alla radice dovuta alla natura dell’uomo, il rapporto essere-apparire è riferibile anche alla dimensione della cultura come prodotto dell’ambiente. In questo caso è il clima culturale di una società che crea le condizioni perché si sviluppino atteggiamenti di pensiero violenti e irresponsabili, al di là del fatto che si traducano sempre in azioni.

Senza sostenere una linea culturale che procede per sintesi obbligate è però possibile seguire per sommi capi una serie di grandi tappe, che nel nostro mondo occidentale e in particolare italiano hanno favorito un impiantarsi della supremazia dell’apparire sull’essere.

Certamente dopo la grande stagione nella cultura scientifica del metodo sperimentale galileiano, attento alla realtà, è stato il principio cartesiano del Cogito ergo sum (Penso, dunque sono) che ha orientato il problema dell’essere come se fosse dipendente dalla capacità individuale di pensare a prescindere dal mondo reale. Piú interessante e utile sarebbe stato se il principio fosse stato formulato secondo il Cogito ergo aliquid est, cioè: penso, quindi è segno che la mia conoscenza deriva da qualche cosa di esterno che posso avvertire. Dopo questo inizio non è stato difficile, per il razionalismo illuminista, diffondere, accanto alla concezione dell’uomo buono geneticamente, anche quella della realtà e della natura disordinata, nella quale solo la ragione umana diventa ordinatrice e garante del progresso. La variante italiana letteraria piú notevole di questa concezione è stata quella della «natura matrigna» cosí ben trattata poeticamente da Leopardi. Il XIX secolo, poi, è dominato dalla filosofia idealistica e dal suo assunto che tutto ciò che è reale è razionale, cioè che la realtà esiste in quanto frutto della attività dell’uomo di poterla pensare. Emerge cosí un individualismo, che nel ‘900, lascia spazio al pensiero esistenzialista e distrugge i punti fermi della conoscenza, introducendo il relativismo come sistema di idee.

Il versante ideologico del conflitto essere-apparire e le sue conseguenze.

Dalla stagione illuminista fino a dopo la Il guerra mondiale anche lo sviluppo delle ideologie contribuisce a rafforzare il conflitto tra essere e apparire soprattutto da parte dei regimi autoritari, che sono la realizzazione politica conseguente del razionalismo illuminista astratto e del successivo scientismo materialista. Essi, infatti, scoprono le nuove tecniche di comunicazione di massa come supporto al potere. In ordine cronologico, per primo il comunismo, poi il fascismo e il nazismo si servono di radio, di stampa e di cinema per orientare e compattare gli individui in masse uniformi. Capitalismo consumista e socialismo reale sono infine la fonte ideologica da cui si origina il ’68. Esso è la chiave di volta in cui si sommano le eredità ideologico-culturali del ‘900 e i progetti rivoluzionari di ispirazione marxista-cinese. Dal punto di vista della mentalità si condisce in salsa individualistica occidentale un integralismo egualitario comunista, fautore della distruzione della funzione pedagogica della famiglia e della scuola, in nome della libertà assoluta e, al contempo, della educazione comunitaria pubblica e statale.

Nasce cosí una diffusa confusione tra essere e apparire ed entrano in contraddizione i due piani: quello sociale e quello esistenziale a causa dello strapotere delle ideologie politiche entrate prepotentemente nella cultura e nei media.

Da un lato, il predominio ideologico marxista nella cultura fissa la superiorità della prassi sulla conoscenza. Del fare sul conoscere, delle masse sull’individuo, del gruppo sul singolo, per creare una convinzione generalizzata che anche le conquiste sociali si ottengono solo con la forza della quantità, esibita pubblicamente o trasferita sul piano di un modo di pensare massimalista.

La politica e la concezione egualitaristica spinta eliminano, pertanto, la meritocrazia e fanno prevalere una concezione che apparentemente difende i piú deboli e i meno capaci, mentre nella sostanza fa prevalere il quantitativismo e la non selezione, favorendo i piú scaltri e impudenti. In questo ambito andrebbe considerata anche la responsabilità di tanti cattolici che si sono accodati a questi principi ideologici post-sessantottisti, e che mettono sullo stesso piano la storia del Cristianesimo e la storia di ogni movimento sociale, ma questo argomento meriterebbe uno studio a parte. La ideologia, divulgata attraverso la televisione, i film e la stampa di massa, crea quindi un sistema di pensiero e di principi che vanno applicati alla realtà, costi quel che costi. Ancora una volta, cioè, si crea l’errato proposito di piegare la realtà in chiave ideologica, privilegiando il sistema teorico rispetto ai fatti.

Dall’altra parte, una pedagogia permissiva sostiene solo la creatività spontanea rispetto all’apprendimento delle regole, la superiorità della sola induzione sulla deduzione, la libertà individuale senza obbligo morale, la dissacrazione rispetto alla conservazione dei valori. Tuttavia si incoraggia sempre l’individualismo solo perché ribelle alla tradizione, mentre si rafforzano i movimenti di massa che uniformano i comportamenti. Si ottiene così il massimo conformismo insieme con il massimo soggettivismo. Tutti fanno la stessa cosa e pensano alla stessa maniera, ritenendosi però originali e liberi.

In un quadro di confusione di valori nasce pertanto una frustrazione sul piano esistenziale sia per chi è capace, sia per chi viene indotto a credersi bravo da un sistema che assolutizza il concetto che tutti possono raggiungere il piú alto risultato, proprio così come Lenin aveva detto quando aveva sostenuto che in un regime socialmente giusto anche una cuoca avrebbe potuto governare lo stato. Nel momento in cui il merito individuale viene disconosciuto, se non addirittura combattuto, a prevalere sono caratteristiche del comportamento che non appartengono certo alla sostanza, ma piuttosto alla apparenza. E se la scuola italiana sta oggi ai livelli più bassi del mondo come qualità formativa, non pochi politici e intellettuali dovranno, prima o poi, fare un chiaro «mea culpa». 

Le conseguenze della assenza di una pedagogia responsabile.

La prima conseguenza di una mentalità plasmata in chiave distorta fa sí che l’essere venga erroneamente inteso come spontaneismo e come emotività nella esasperata libertà soggettiva e l’apparire, invece, come il comportamento di chi obbedisce alle regole, presentate come calcolo e finzione. Pertanto la società che si ipotizza e per la quale si combatte politicamente è una società che non proibisce nulla, nella speranza che basti una autodisciplina a regolare gli eccessi. Tutto questo in teoria, ma in pratica le cose vanno lungo l’arco dei decenni cosí come oggi possiamo verificare direttamente. Nasce il disprezzo per la ragionevolezza e trionfa la fuga nell’irrazionale, nel magico e nel misterioso o nel surrogato della religione tradizionale. Il capovolgimento di valori del significato attribuito a essere e ad apparire fa sí che gli individui credano di essere mentre si dedicano sempre piú all’apparenza con la complicità di modelli di ricchezza economica, del crollo della famiglia e della scuola, dei massmedia e con l’assenza di ogni forma di controllo e di rifiuto della responsabilità individuale.

Si potrebbe dire che trionfa una cultura frutto di una mentalità che amplifica il peccato originale, visto che esprimiamo un protagonismo vuoto, affermando il nostro soggettivismo prima di tutto.

Prendiamo apparenza per realtà. Una cosa ci piace non perché vale, ma diciamo che vale perché ci piace e come tale vorremmo valesse per tutti. Approviamo le cose non perché siano giuste, ma diciamo che sono giuste perché le ha legalmente approvate una maggioranza. Scegliamo per motivi esterni alla natura dei fenomeni. Non ci chiediamo il perché delle cose. Desideriamo parlare o essere ascoltati senza ascoltare. Diamo spazio al sentimentalismo piú che al sentimento. Troviamo difficoltà a perseverare. Cerchiamo il potere e non il servizio. Rifuggiamo dal riconoscere autorità e autorevolezza. Ci riteniamo padroni e non amministratori della nostra vita. Pretendiamo giustamente dei diritti, ma facciamo fatica a imporci quei doveri e sacrifici, che vorremmo dagli altri. 

L’importanza del metodo di Taddei.

In un contesto dove i massmedia rappresentano l’ambiente determinante per lo sviluppo mentale, Taddei comprende che non si può piú educare se non si può piú parlare in nome di nessun valore. Né si possono educare soggetti non piú disposti a dialogare in nome di niente. Per questo la prima preoccupazione è quella di comprendere come ragiona chi pensa per immagini e ha altri schemi di apprendimento o ha vissuto in una scuola concepita come servizio sociale assistenziale e non come disciplina formativa. Taddei, quindi, non inventa niente di teorico, ma comprende a fondo il capovolgimento di significato attribuito nell’epoca dell’immagine all’essere e all’apparire e scopre che una delle principali cause è il linguaggio dei media, perché esso è prima di tutto apparenza e veicola esempi di comportamenti che vengono accettati come se fossero comunque reali.

Analizzare il linguaggio del film e dei massmedia vuol dire, quindi, partire dalla apparenza per cercare la essenza del pensiero che c’è dietro, smascherandone le comunicazioni inavvertite, cioè quegli aspetti che si attribuiscono alla realtà mentre dipendono solo dal modo di presentare l’immagine. Vuol dire non affidarsi alla emotività e alla valutazione di ciò che ci sembra bello, per capire, invece, ciò che è giusto. Vuol dire fare un passo dietro l’altro, educando la propria volontà e la propria curiosità. Vuol dire prendere una abitudine educativa, che insegna a insegnare e a tendere verso un obiettivo che è quello del fornire degli strumenti critici (e non puramente distruttivi o dissacranti) per lasciare decidere responsabilmente alle singole persone, senza dare loro il risultato già scontato. Tutto questo vuol dire sostanzialmente guardare oltre gli aspetti superficiali di una società che si definisce come libera, mentre è solo permissiva. 

La strategia comunicativa di Taddei.

Per comunicare, oggi, in funzione educativa occorre, allora, una vera e propria strategia, perché non basta mettere in fila ordinatamente delle belle parole, ma occorre anche dare loro un certo valore espressivo, che motivi coloro ai quali ci rivolgiamo alla adesione esistenziale. Si tratta di comprendere che ci sono livelli di comunicazione diversi e che per educare correttamente si devono seguire vere e proprie operazioni che tengano conto di una mentalità massificata e puramente soggettivistica. Pertanto si deve rinunciare a una impostazione comunicativa deduttiva e sviluppare una impostazione induttiva, partendo dalla realtà «virtuale» dei media, sostituendo alla semplice «predicazione» lo stimolo alla ricerca e alla curiosità per la realtà «reale». In poche parole occorre sostituire alle citazioni, alla erudizione, la pedagogia della volontà e dello sforzo per conseguire un obiettivo. Non è piú la stagione di una pretesa e asettica informazione, ma quella della formazione critica ed etica, che chiede una coerenza esistenziale e una testimonianza concreta di quei valori, che non possono piú essere enunciati solo come facciata di una società.

Concludendo.

Attraverso il metodo educativo che parte dalla lettura dei media e degli aspetti sociali e individuali di cui trattano è quindi possibile recuperare il senso dell’essere, proprio in un momento in cui il disagio giovanile richiede la massima attenzione da parte di genitori, insegnanti e religiosi. Insegnare a vivere secondo l’essere vuol dire, pertanto, insegnare la consapevolezza della propria natura, dei propri limiti e delle proprie possibilità, in una prospettiva di servizio, mentre tutto sembra suggerire di vivere secondo un apparire, che riduce l’incontro con gli altri a convenienze superficiali. Non si tratta, pertanto, di offrire ai giovani il modello di vita che, di volta in volta, soddisfa un potere dei media che nulla ha a che vedere con civiltà e religione, ma piuttosto di concentrarsi sulla realtà, insegnando ad affrontarla con un discernimento, che educhi alla libertà, senza fare dei giovani dei ribelli antisociali, dei disadattati o dei conformisti.

 


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