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ANG BABAENG HUMAYO (THE WOMAN WO LEFT)



Regia: Lav Diaz
Lettura del film di: Olinto Brugnoli
Titolo del film: ANG BABAENG HUMAYO
Titolo originale: ANG BABAENG HUMAYO
Sceneggiatura: Lav Diaz
Nazione: FILIPPINE
Anno: 2016
Presentato: 73 MOSTRA D'ARTE CINEMATOGRAFICA VENEZIA CONCORSO
Premi: LEONE D'ORO Premio Sorriso Diverso Venezia 2016 - Ass UCL Miglior film straniero

Il regista. Definito “il padre ideologico del nuovo cinema filippino, Lavrente Indico Diaz (nato nelle Filippine nel 1958 e cresciuto a Cotabato, Mindanao) è un autore eclettico, famoso per la lunghezza delle sue opere, che non sono regolate dal tempo ma dallo spazio e dalla natura, e per il suo impegno politico-sociale. Questa sua ultima opera è ispirata al racconto di Tolstoj, Dio vede la verità ma non la rivela subito.

 

La vicenda. Horacia Somorostro ha trascorso trent’anni in prigione ingiustamente. Quando la colpevole del delitto a lei imputato finalmente confessa, prima di suicidarsi, Horacia viene finalmente liberata. Sa che all’origine delle sue disgrazie c’è Rodrigo Trinidad, suo ex fidanzato che, per vendicarsi di lei, che lo aveva lasciato, pagò una donna per incolparla di un omicidio. Horacia torna a casa, ma non trova più nessuno. Riesce a rintracciare la figlia, che aveva lasciato quando aveva sette anni, ma non trova né il marito né l’altro figlio. Naturalmente in lei c’è il desiderio di vendicarsi. Fa di tutto per rintracciare Rodrigo; riesce a procurarsi una pistola e lo segue quando lui frequenta la chiesa. Nel frattempo, però, Horacia ha modo di rendersi conto della situazione sociale in cui versa il suo Paese: ingiustizie, contrasto tra ricchi e poveri, prevaricazioni, intolleranze, ecc. Frequenta e difende i poveri e gli emarginati. Si prende cura e si affeziona ad un omosessuale che era stato ferocemente picchiato. Così, poco alla volta, abbandona i suoi propositi di vendetta e se ne va a Manila a cercare suo figlio, probabilmente anche lui un emarginato. E inonda la città di volantini con la speranza di riuscire a rintracciarlo e a salvarlo.

Il racconto. Le prime immagini servono ad inserire la vicenda in un contesto nazionale e internazionale. Siamo nel 1997. Hong Kong ritorna a far parte della Repubblica popolare cinese; la principessa Diana muore in un violento incidente automobilistico; il mondo piange la morte di Madre Teresa; le Filippine sono diventate la capitale asiatica dei rapimenti e sono nella morsa della paura.

Viene poi messa in rilievo la figura della protagonista, Horacia, che si trova ancora in carcere. La donna, che era un’insegnante, dimostra subito di possedere una grande disponibilità nei confronti degli altri, raccontando storie e istruendo i bambini che vivono in carcere con le loro madri. È benvoluta da tutti. E tutti sono felici quando finalmente si viene a sapere la verità e Horacia viene liberata.

C’è poi tutta la fase in cui la protagonista medita e cerca di mettere in atto il suo proposito di vendetta: si informa circa le abitudini di Rodrigo, si mette sulle sue tracce, riesce a procurarsi una pistola. Ma mentre fa tutto questo si incontra con un’umanità ferita e umiliata. Trascorre molto tempo con un “gobbetto” che gira per le strade a vendere delle uova fecondate. Ma soprattutto si prende cura di un “travestito” malato di epilessia, un reietto, oggetto di violenze e di disprezzo. Ed è proprio questo suo dedicarsi agli altri, agli ultimi, che le fa capire che la vendetta non ha senso; che è più importante mettersi alla ricerca del figlio, che forse si trova nelle stesse condizioni dei poveracci che la circondano. Ed ecco la scelta finale: è più importante fare del bene e dedicarsi agli altri che cercare la vendetta.

Per quasi quattro ore, in bianco e nero, con inquadrature sempre fisse (tranne un movimento di macchina verso il finale), il regista racconta – con un ritmo lentissimo che mette alla prova la resistenza dello spettatore – l’evoluzione della protagonista verso una scelta di umanità.

Se dal punto di vista tematico l’opera è decisamente positiva, resta tuttavia il sospetto di un certo autocompiacimento da parte del regista, che dilata i tempi oltre misura, quasi per alimentare quel mito di autore di culto che lo circonda. Forse si poteva dire la stessa cosa – anche più efficacemente – in minor tempo. Ne è una riprova il fatto che il film uscirà nelle sale italiane in una versione ridotta di 140 minuti (probabilmente senza perdere niente, anzi).

 


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